di Pierangelo Colombo

domenica 9 ottobre 2022

L'antimaestro

 L’antimaestro

 
 


 
  Alla fine ci è riuscita, mi ha placcata a pochi metri dal traguardo. Mancavo solo io alla collezione, ed eccomi qua, in lacrime. Ora può dirsi soddisfatta: depennandomi ha completato la lista. Attuando un lavoro certosino, in tre anni, per due ore la settimana, è riuscita a bollare l’intera classe con il suo marchio: un pianto mortificato.
  Odio queste lacrime, che non riesco a trattenere. Le mani fremono di rabbia, sospese sulla tastiera della pianola; collera che m’impedisce di distogliere lo sguardo, seppur affogato, dal suo ghigno soddisfatto. Compiaciuta nel vedermi umiliata, piegata finalmente alla sua autorità; guarda i miei compagni con la superbia del gladiatore vittorioso, in attesa del pollice verso. Ma lei non ha bisogno di verdetti, lei è sovrana, con diritto di vita o morte. Nei suoi occhi è lampante la convinzione: “Non combinerai nulla di buono nella vita”. Ed io, vinta, non posso che soggiacere alla sua perfidia. Il silenzio nell’aula è disturbato soltanto dai miei singulti, così le sue parole squillano chiare e pesanti: “Ringraziate la vostra compagna, se lunedì, ultimo giorno di scuola, nell’ultima ora, invece che far festa si farà lezione”. Frase che fa colpo sui compagni che, finalmente, vedono la secchiona imputata. Accusa che cancella dalla memoria il fatto che, poco prima, lei personalmente, aveva messo in agenda di: visionare i quaderni, controllare le schede d’ascolto e correggere l’ultimo dettato musicale, proprio in quella maledetta ultim’ora di scuola.
  La rabbia mi bolle dentro, non per le lacrime che le sto offrendo su di un piatto d’argento, o per la mortificazione dinanzi ai compagni che, durante le sue lezioni, sono avvezzi a dare o assistere a questo penoso spettacolo. La collera nasce dall’ingiustizia nell’accusa mossami; dal suo arrogarsi padreterno, onnisciente e infallibile. Ha stabilito che io sia impreparata, quindi, il suo pensiero si fa verbo, verdetto: ho cazzegiato nel fine settimana. Non importa se abbia rinunciato a seguire mio padre in Toscana, rosicandomi di sensi di colpa nel costringere anche mia madre a casa; d’essere la causa per cui, il babbo, pareva un orfano alla cerimonia cui non poteva mancare. Ma lei aveva fissato la mia interrogazione, concedendomi la possibilità di alzare la media da un nove punto otto a dieci. Una persona responsabile si sarebbe accontentata: “Grazie del pensiero, ma mi basta il nove”. Affermazione, bestemmia, nei confronti della religione da lei amministrata. Nessuno può osare, o solo pensare, di ridurre l’arte sacra della musica a materia secondaria. Unica alternativa, quindi, eseguire ad occhi chiusi i brani conosciuti. Ed io, idiota, che non temo epica, scienze o storia, ma tremo dinanzi a lei, cosa ho fatto? Trascorso, maledicendoli, il sabato e la domenica a passare e ripassare, martellando sui tasti, le note che leggevo sul pentagramma. Chiudendo gli occhi, rivedevo i diesis, i bemolle, le quartine, le pause, mentre stordivo mia madre con: Per Elisa o L’inno alla gioia.
  Gioia. Prima di lei, associavo questa emozione alla musica, festa, allegria, voglia di vivere. Ora, dopo tre anni di sue lezioni, di urla, minacce, note, insulti velati e non, vi associo tensione, incubo, insonnia.    Non so perché scarichi le frustrazioni su di noi, se ne prova sollievo o ne goda. Se si renda conto d’aver dinanzi dei ragazzini. Nessuno di noi, si è mai permesso di ritenersi migliore di lei, eppure ci ha sempre trattati da reietti, delle merde. “Lo faccio per voi, per prepararvi ad un mondo di squali”, ha detto. Non credo, però, che nella savana mettano un leone in un’aula per preparare i bambini ad affrontarlo.
  Ha voluto mettermi in crisi: “Inizia dal quinto rigo” ha chiesto. Ma io non sono una concertista come lei, manco d’esperienza; impensabile iniziare da una battuta qualsiasi, nel mezzo della frase musicale, trovando immediatamente il giusto ritmo della melodia. Come declamare una poesia partendo da un verso a caso e pretendere di creare, all’istante, la giusta enfasi. Se poi vi aggiungo l’ansia nel trovarmi a suo giudizio, la stessa fobia di un imputato dinanzi alla Santa Inquisizione. Non esagero, non sono sfoghi di chi, in fallo, cerchi di scaricare le proprie negligenze. La mia educazione mi porta a rispettare chi mi sta dinanzi, lei, però, esige stima, che è tutt’altra cosa. Sono una preadolescente, una ragazzina che ignora la serietà della vita, come lei sostiene, ma le assicuro che conosco il valore della stima, merito che si acquista con le azioni, mentre lei l’esige con il terrore. Gandi ha conquistato la stima dell’umanità, mentre i dittatori la impongono. La stima è un sentimento vero, non può essere edulcorato.
  Il nodo in gola, per fortuna, blocca ogni parola; fingo sottomissione, replicare significa compromettere l’imminente esame. Ci tiene in scacco usando l’assurda scala decimale. Il ricatto è il fulcro del suo metodo didattico. Sono codarda, lo ammetto, relego questo sfogo ad un foglio di carta, lettera che, di certo, non leggerà mai e, nel caso, cestinerebbe definendomi l’ennesima cretina. Tuttavia, seppur incredibile, devo ringraziarla. Benedirla per questo pianto che, sciogliendo la tensione, mi spalanca gli occhi: ho capito quello che non voglio diventare; se un giorno avrò la fortuna d’insegnare, potrò contare sull’esempio lampante di coma sia l’antimaestro. L’antimaestro, credendosi superiore, è in grado di stroncare sul nascere l’autostima di un allievo, quella barriera protettiva che il ragazzo tesse lentamente, cercando un proprio esistere. L’antimaestro massacra la propria arte con l’egocentrismo; non porta conoscenza, ma cancella ogni volontà d’apprendere ciò che, al contrario, l’allievo impara ad odiare.
  Lei si crede infallibile, un giudice pronto a sputare sentenze; un analista che, soltanto guardandoci in faccia, comprende la pasta che ci compone. Quando, persino noi, non abbiamo la più pallida idea di come veramente siamo. Stiamo cercando di costruirci, districarci dai luoghi comuni che voi, adulti, stampate in ciclostile, bollandoci come persone senza idee chiare sul futuro, scopo o un concetto che elevi le nostre mediocri esistenze. Giudizi che sputate senza nemmeno guardarvi alle spalle, dando una ripassata nella memoria per rammentare che, nel bene o nel male, anche voi siete passati da questa fase. Lei enuncia di volerci raddrizzare, come fossimo dei criminali da riformatorio, ma se anche lo fossimo, i virgulti si raddrizzano fornendogli un supporto cui poggiare, non certo colpendoli a bastonate. Quanti studenti hanno pianto e quanti ancora lo faranno, da qui alla pensione, schiacciati dal suo potere travestito da sapere. Si vanta d’averci fatto conoscere la musica, insegnato ad eseguirla. Non lo nego, mi chiedo, tuttavia, a cosa serva apprendere un’arte senza provarne amore.
  Con lei, antimaestra, ho conosciuto l’insicurezza, l’ansia, il panico, ma una sola grande certezza: appena terminata la scuola, chiuderò la tastiera in un baule seppellendolo e, da grande, non farò mai la pianista. E, scusi se mi permetto, ma chi ha veramente fallito, è stata lei.  

 


Ogni riferimento a persone o vicende realmente accadute è puramente casuale. 

Terzo classificato XIV ed. Premio “Vittorio Alfieri”

Scritto da Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Bucefalo e altre storie.


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