di Pierangelo Colombo

giovedì 28 giugno 2018

Mille passi cominciano sempre da uno


  La fiducia in se stessi è fondamentale  nell’intraprendere strade nuove, affrontare le nostre paure per superarle. A volte capita di incontrare persone semplici, che quasi sfuggono alla nostra attenzione, ma che, se conosciute da vicino, svelano tesori straordinari. Per non farci sfuggire questi incontri, però, dobbiamo saper far cadere quegli stereotipi che ci impediscono di guardare oltre l’apparenza.

Mille passi cominciano sempre da uno



«Manca molto?» domanda Huso, affiancandosi a Bundi, il giovane guerriero che guida la comitiva. Huso non è stanco: lui è un Turkana, pastori creati nomadi per un territorio arido, dove l’acqua è un tesoro da guadagnarsi tutti i giorni. La sua è piuttosto impazienza, brama di vedere il grande lago, che gli anziani del villaggio descrivono come un mare di giada.
«Manca il tempo necessario» replica Bundi, che, muovendo stizzito la lancia, intima al ragazzino di tornare nel gruppo.
«Non rispondi perché ti sei perso» ribatte Huso. «Ti credi un condottiero, ma sapresti perdere un gruppo di capre cieche, legate fra loro e coperte di sonagli».
Bundi ne afferra il braccio con una mossa fulminea, costringendolo a inginocchiarsi e, fissandolo nelle pupille, lo sommerge di disprezzo. «Conserva l’arroganza per il dottore, quando il coraggio ti lascerà solo, davanti ai suoi ferri».
«Non ho paura del dottore!» sbotta Huso, stizzito. «Un giorno sarò un guerriero».
A sedare la diatriba interviene Numa, una delle madri che accompagna il gruppo di ragazzini verso la missione della Consolata. «Prima di farti guerriero» irride il ragazzino, «vedi d’uscire vivo da questa situazione». Voltandosi, poi, verso Bundi, lo redarguisce con sguardo torvo.
«Da quando gli hanno dato una lancia, si è montato la testa. È una termite che si crede uno scorpione» sbotta Huso. Sbruffando, rientra fra i compagni scortato da Numa.
Vista da lontano, la comitiva sembra fluttuare nella calura che, rimbalzando sul terreno, forma il miraggio di una superficie liquida. Camminano compatti e disciplinati, diretti a Loiyangalani sulla riva sud-occidentale del lago Turkana. A guidarli due guerrieri, mentre in coda alcune madri portano i propri piccoli nel fagotto legato alla schiena. Alla missione li attende il presidio medico per le visite e le vaccinazioni.
Nell’ora più calda sostano un una piccola oasi. Il sole arroventa i ciottoli sparsi sul terreno riarso; una calura che penetra sino alle ossa e scalda i polmoni attraverso l’aria che sa di polvere. Iniziando dai più piccoli, ognuno beve la propria razione d’acqua, attento a non sprecarne.
«Dietro quella collina c’è il lago» dice Numa, rivolgendosi a Huso. Il ragazzo ha l’impulso di sollevarsi e correre per raggiungere per primo il culmine del promontorio. Un desiderio represso, però, dalla consapevolezza del castigo che avrebbe meritato.
Il sole è di poco sopra l’orizzonte quando, scollinando, Huso scorge il lago rimanendone sbalordito. Uno specchio d’acqua che, riverberando il celeste del cielo, esalta il paesaggio lunare circostante. Appena increspata, la superficie splende mandando una miriade di scintille. Una quantità d’acqua mai immaginata; il colore ha qualcosa di magico, irreale: un turchese così limpido da far credere che un pezzo di cielo sia precipitato nella vallata. Uno spettacolo per chi non ha visto che pozze fangose. Huso ne è talmente assorto da non accorgersi nemmeno del sopraggiungere di Numa. 
«Layeni» dice la donna, indicando un gruppo di capanne adagiate sulla riva. «Il villaggio degli El Molo. Passeremo la notte lì».
  «Il sole non è ancora tramontato, possiamo proseguire» ribatte Huso, stizzito. Il pensiero d’accamparsi presso un villaggio di pescatori, infatti, lo irrita quanto una manciata di formiche rosse lungo la schiena. Lui fa parte di un popolo fiero: guerrieri che nulla hanno da spartire con degli omuncoli che, anziché cacciare, mangiano pesce. Meglio dormire all’addiaccio, che condividerne il bivacco.
Discendendo l’altura, Huso osserva il villaggio alla stregua di una carogna d’animale. Sparse a manciate, le capanne a cupola sembrano spuntare direttamente dal terreno, come fossero funghi. Un nugolo di uccelli vola caoticamente sfiorandone i tetti. Giunta nei pressi dell’insediamento, la comitiva è accolta da una torma vociante di ragazzini che, ravvisando nei coetanei un’opportunità di gioco, non s’attardano in convenevoli. Un baccano che infastidisce Huso. Irritato dallo schiamazzo che si mescola alle strida degli uccelli, palesa il proprio risentimento lanciando occhiate sdegnose verso gli ospiti, mentre i compagni si mescolano a loro, rendendo indistinguibili le due etnie.
Schifato da una simile promiscuità, s’allontana dirigendosi verso il lago. Il cielo è acceso dagli ultimi raggi del sole, mentre il vento rinforza increspandone le acque. Una brezza che stempera la calura del giorno, spingendo delle piccole onde a smorzarsi sulla rena.
Fermandosi a pochi passi dalla riva, scruta intimorito il confine mobile fra terra e lago. Prova la sensazione di trovarsi sull’orlo di un dirupo; contrariamente all’aria, però, l’acqua cela il vuoto. Il fondale si stempera nelle acque scure, come gli spiriti nelle tenebre. Un pensiero che gli procura un brivido, lo stesso panico provato quando, spostando un masso, aveva sentito il sibilo di un mamba nero; a salvarlo era stata la prontezza di spirito e una corsa a perdifiato.
Inconsciamente, arretra di un passo, come se il lago possa inghiottirlo in un sol boccone. Ha paura, e ciò che più lo atterrisce è il non sapere affrontare la situazione; suo padre gli ha insegnato a fronteggiare il terrore con il coraggio: un guerriero Turkana non teme nulla. Ora, invece, trema come una femminuccia davanti all’acqua.
«Come ti chiami?» domanda una vocina, che giungendogli alle spalle lo fa trasalire. Voltatosi, vede una ragazzina dagli occhi grandi ed espressivi; i capelli raccolti in fini trecce, una fossetta a dividere le sopracciglia. Le labbra carnose disegnano un sorriso grazioso. «Io sono Maluum» si presenta.
«Huso» risponde lui, asciutto.
«Vuoi sentire Aban raccontare della caccia allo yee
Huso non è dell’umore giusto per ascoltare delle storie, specie su fantomatiche cacce all’ippopotamo; ma non vuole restare solo. Alza quindi le spalle, dissimulando ogni interesse.
«Domani è il secondo giorno dopo la luna nuova» spiega Maluum. «Gli uomini del villaggio partiranno verso nord, per la caccia allo yee».
Remissivo, Huso segue la ragazza attraversando il villaggio. Alcune donne stanno preparando il materiale per la spedizione: tabacco, pelli conciate, una coperta di lana, carne e pesce secco, il tutto legato in un fagotto. Gli uomini, invece, predispongono corde, coltelli e lance munite di arpioni. Gesti che affascinano Huso, alleggerendone la tensione. Non ha mai visto un ippopotamo, ma ne ha sentito parlare: quando uno yee entra in acqua, il coccodrillo si allontana; eppure, persino il leone teme il coccodrillo.
«Quella è la capanna di Aban» spiega Maluum, indicando il bivacco dove sono radunati altri ragazzi. «É stato un grande cacciatore».
Seduti a semicerchio, i ragazzini reggono una ciotola da cui pescano la cena, nell’attesa che l’uomo inizi il racconto. Huso, unendosi a loro, mette subito a fuoco la figura esile del narratore: un vecchio ricurvo, dalla pelle e gli occhi bruciati dal vento e dal sole. Stenta a credere, però, che quell’omino possa aver cacciato un animale più grande di una suricata.
«Ero ragazzino, quando ho partecipato al mio primo Tuul» esordisce il vecchio. Le mani degli uditori si fermano a mezz’aria, le bocche semiaperte. «Tuul è la caccia sacra: solo all’uomo più coraggioso è dato di uccidere lo yee. Quel giorno, mio padre era fra i cacciatori che marciavano lungo la riva, mentre io, ancora giovane, ero d’aiuto sulla Kadish, la grande zattera».
Huso è rapito dal racconto, nemmeno s’accorge che Maluum gli porge una ciotola di pesce stufato. La fantasia è proiettata nell’immaginarsi fra i cacciatori, durante la marcia, nella preparazione degli arpioni serrati alla lancia.
«Il secondo giorno avvistammo il branco, un gruppo numeroso che riposava vicino riva. Con la zattera ci fermammo a distanza, osservando la scena. I cacciatori si mossero lentamente; scivolando nel lago, lasciarono solo la testa fuori dall’acqua. Uno dopo l’altro, si avvicinarono alla preda formando un semicerchio per bloccarne la fuga. Quando gli furono abbastanza vicini, iniziarono a gridare: “Too! Too!”» urla, facendo trasalire i ragazzini. «L’animale, enorme, attaccò i cacciatori per aprirsi un varco. Mio padre gli era davanti e io avevo paura, imploravo i nostri avi che gli facessero salva la vita. Lo yee spalancò la bocca per azzannarlo. I compagni cercarono di colpirlo, ma mio padre non si mosse, aspettò la distanza giusta e, con tutta la sua forza, gli conficcò l’arpione nel collo». Mima la scena. «Il primo che riesce ad arpionare la preda ha diritto di ucciderla. Così, mentre i compagni lo colpivano per sfinirlo, mio padre si tuffò in acqua per trafiggerlo raggiungendogli il cuore. Doveva stare attento, però; la bocca dello yee è molto pericolosa. Mio padre era immerso, mentre lo yee si dibatteva; l’acqua ribolliva tingendosi di sangue. I compagni tesero le corde, per costringere l’animale verso riva. Io strinsi così forte la fune della zattera da far sanguinare i palmi delle mani. Il tempo passava e mio padre non riemergeva; i compagni invocavano gli spiriti: Apaa, Swaa e Swoi, finché, chiudendo le fauci con uno schianto, l’animale non s’immobilizzò. Trattenni il respiro, sino a quando non vidi mio padre riemergere con le braccia alzate lanciando un urlo per liberare la gola dall’acqua».
Huso fissa il vecchio con occhi trasognati; è sbalordito, mai avrebbe immaginato tanto valore in semplici pescatori. Una riflessione che attizza un moto d’orgoglio: come può lui, un Turkana, mostrare meno coraggio di un El Molo? Come può aver paura dell’acqua?
Terminato il racconto, i ragazzi lasciano il bivacco. Huso affronta pensieroso le tenebre appena stemperate da uno spicchio di luna. Maluum, che lo segue, sembra coglierne il tormento.
«Sei triste?» domanda, posandogli la mano sulla spalla.
«No, perché?» dissimula Huso, inorridendo al pensiero di confidarsi con una femmina. Il silenzio che segue, però, non fa che esasperarne l’ansia. «Sei mai entrata nel lago?» domanda, rompendo gli indugio.
«Sì. Ogni volta che aiuto mio padre a tirare le reti».   
«Non hai mai paura?» replica titubante.
«Perché dovrei?» risponde lei, sorpresa. «Tu hai paura?» Intuisce il problema.
«Io? Figurati, non ho paura di nulla, io» replica Huso, stizzito. Maluum non insiste, ma afferrando la mano del ragazzo lo accompagna sino alla riva. La notte cela il lago assorbendone la forma; un lieve sciabordio sulla rena segnala la presenza dell’acqua. Il vulcano Nabuyaton, “stomaco d’elefante”, staglia la propria figura sull’orizzonte segnato dalle stelle.
Tenendo la mano di Huso, la ragazza immerge il piede nell’acqua; lui vorrebbe divincolarsi e fuggire, ma perderebbe ogni dignità. Maluum fa un altro passo, tirandoselo a sé. Trattenendo il fiato, Huso immerge il piede sentendone scaturire un brivido.
«Anche mio fratello aveva paura del lago. Non c’è nulla di male» sussurra Maluum. «Fidati di me, gli ho insegnato io a nuotare in una notte come questa. Meglio al buio, perché se una cosa non la vedi, vuol dire che non c’è. E se non c’è, non devi averne paura».
Huso non comprende il discorso, ma la sua voce tranquilla lo conforta. I denti battono forte: non è soltanto l’angoscia d’essere risucchiato nel buio; i brividi di freddo si fanno violenti. Maluum gli afferra l’altra mano, trascinandolo al largo.
Huso cammina lentamente, sentendo le pietre lisce sotto i piedi; il livello dell’acqua sale ad ogni passo. Lambisce prima le ginocchia, l’inguine, la vita; quando arriva al torace, sentendo mancare il respiro, il ragazzo oppone resistenza. Maluum lo tira con forza, portandolo sino ad avere l’acqua alla gola.
Fermandosi, Huso avverte un tepore piacevole, mentre una forza invisibile lo spinge verso l’alto. Sensazioni contrastanti fra paura e quiete. Per un istante, l’ansia ha il sopravvento; la sensazione che l’acqua si stia infiltrando nel proprio corpo fa scaturire un pensiero: quello d’essere un grumo di terra che, gettato in acqua, vi si stempera dissolvendosi.
Un brivido lo scuote. Maluum lo percepisce, e gli stringe forte la mano. «Lasciati andare, come per dormire» sussurra. Huso è teso, l’idea di lasciare la presa lo terrorizza. «Fidati! Ci sono io. Un passo alla volta» lo incoraggia.
Combattuto fra paura e orgoglio, Uso si costringe a sollevare le gambe, ma è rigido e la testa finisce sotto. Beve una sorsata d’acqua sapida di minerali e, annaspando, riemerge mordendo l’aria.
«Prova adesso» sussurra Maluum, facendogli leva sui lombi. «Tranquillo, respira piano e lasciati andare». Sempre sussurrando, intona un canto che parla di uccelli, di stelle e una nuvola che volle farsi pioggia. La voce è così dolce da smorzare ogni pensiero nella testa di Huso, come una fiammella che scaccia le tenebre.
Rilassatosi, si ritrova a galleggiare, mentre l’aria fresca gli solletica la pancia. Egli stesso è il confine fra lago e cielo. “È come volare” pensa; nessun contatto con il terreno, fluttua come una piuma. Il pelo dell’acqua gli accarezza le guance, sussurrandogli nell’orecchio lo sciabordio. Non ha più paura; anzi, è sbalordito, leggero anche se impacciato. Ascolta il proprio respiro, il battito regolare del cuore ora mansueto, senza le crisi sempre più ricorrenti dove, senza ragione, esplode in una corsa zoppa, come fosse la fuga di una gazzella con la zampa ferita. Un cuore malato che lo vorrebbe guerriero ma, nello stesso tempo, gli impedisce di correre o di fare grandi sforzi senza cadere svenuto.
Maluum toglie la mano da sotto la schiena; Huso si sente mancare. Lei lo rassicura: «Sst! Respira lentamente. Guarda le stelle e non pensare a nulla».
Huso le stringe la mano, che sente liscia e calda. Poi, la percepisce galleggiare a pelo dell’acqua, con la stessa delicatezza di una foglia. Per un istante, sente un desiderio far breccia nell’animo: trattenere quel momento il più a lungo possibile. Non desidera più farsi grande il prima possibile, andare a caccia e diventare un guerriero rispettato e onorato dalla propria gente. Quello che il suo cuore desidera è stare lì, immobile, a mirare il creato. Vorrebbe non lasciare mai la mano di Maluum, mano calda come una focaccia cotta al sole, e ascoltarne la voce cantare altre canzoni.
«A cosa stai pensando?» chiede lei, con un filo di voce.
«Non penso a nulla» s’affretta a rispondere, vergognandosi dei propri pensieri.
Trattenendo ogni altra parola, i ragazzi guardano le stelle, gli animali, gli eroi che ricordano nel firmamento.

«Sveglia dormiglione!»
La voce di Numa s’intrufola nel sogno di Huso, sbriciolandone ogni possibile memoria. Ridestandosi, fluttua nel sottile confine fra sogno e realtà. I ricordi riaffiorano come bolle nell’acqua. Avverte qualcosa stretto nella mano; aprendo il palmo, scopre una conchiglia: un dono di Maluum. Stenta a credere di provare malinconia all’idea di lasciare il villaggio, così come gli è difficile ammettere che Bundi ha ragione: il pensiero d’affrontare il dottore lo atterrisce più del lago.
«Maluum!» esclama, balzando in piedi. Corre verso il centro del villaggio. Chiamandone il nome, cerca la ragazza. Vorrebbe salutarla, prima di lasciare il villaggio; dirle quel grazie che, seppur occultato dall’oscurità, l’orgoglio aveva trattenuto in gola.
«Buona giornata». La voce di Maluum lo coglie nuovamente alle spalle, facendolo trasalire. Seduta per terra, macina del grano fra due pietre. Il sorriso le illumina il volto. Huso dimentica le parole che avrebbe voluto dirle. La guarda afono, ritto come una canna seccata al sole.
«Partite?» domanda lei, rompendo il silenzio. «Al ritorno passerete ancora per il nostro villaggio?»
«Certo!» risponde Huso; non ne è sicuro, ma la speranza di rivederla è tale da spingerlo a farle una promessa. «Torneremo, anche perché devo ancora conoscere tuo fratello». Si trae d’impaccio temendo d’essersi compromesso.
Maluum sorride, maliziosa. «Io non ho fratelli, ma due sorelle. Gli anziani, però, dicono che lo straniero è come un fratello che non hai mai incontrato».
Huso la guarda torvo; per un istante si sente raggirato. Si china, immerge l’indice nella farina che porta alla bocca e ribatte con un altro detto: «Le donne sono le trappole del diavolo».
«Mille passi cominciano sempre da uno» risponde lei.


di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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