di Pierangelo Colombo

giovedì 21 giugno 2018

La scatola di latta


A volte basta ritrovare una vecchia scatola di latta per risvegliare ricordi lontani nel tempo. Profumi, sensazioni, rimpianti che ci assalgono come una buriana, emozioni preziose come lo sono i ricordi.

 

 

La scatola di latta


  Ci risiamo! Ogni volta la stessa storia; mi dico: “Solo un saluto. Entro, chiedo se occorre qualcosa e scappo senza lasciarmi intrappolare. Nemmeno un caffè!”
  Inevitabilmente, però, mia madre riesce a farmi pentire del brandello di tempo che faticosamente ritaglio fra ufficio, commissioni, casa, due figli e un marito. Pare che invecchiando regredisca a uno stato infantile, riacquistando l’ostinato egoismo egocentrico tipico dei bambini, dove tutto è dovuto seduta stante.
  A volte, credo che trascorra le giornate ad arrovellarsi per escogitare mille faccende, commissioni, lavori dall’urgenza inderogabile da assolvere ad ogni costo, pena l’apocalisse. E così ci ricasco ogni volta, combattuta fra l’incalzante ticchettio dell’orologio e la sua vocetta limpida che mi sommerge di sensi di colpa. Un giorno è il ficus da travasare, quello successivo i sacchetti di lavanda per l’armadio, oppure i vetri della finestra da pulire perché “arriva Pasqua”.
Questa sera è toccato a un buono postale che, ventennale, dovrebbe essere in scadenza. Inutile arrogare scuse: la vecchia scala di legno è già piazzata di fronte all’armadio a muro, cimitero domestico di tutto ciò che, utile e non, ha fatto il suo tempo. Trattengo a stento la rabbia, mentre, sbruffando, mi dirigo verso il sito archeologico. Salgo diffidente i vecchi pioli in legno guardando mia madre che, minuta, cerca di puntellare la struttura tarlata e traballante; mi domando se sia lei a sorreggere la scala o viceversa.
La sua voce mi guida nella ricerca con la stessa precisione di un GPS; dall’armadio si spande un delicato profumo di lavanda, mentre le pareti rivestite di sughero assorbono ogni rumore. Arrivata all’ultimo ripiano soffio delicatamente per cacciare la polvere, che riveste un piccolo universo perduto nel tempo. Lo strato di pulviscolo rivela i lunghi anni d’abbandono di cianfrusaglie e scatole quasi dimenticate; eppure, la memoria di mia madre si dimostra infallibile, indicandomi la posizione e il colore della vecchia scatola di scarpe che, assieme ad altre mille scartoffie, custodisce il prezioso documento. Spesso mi capita di domandarmi come una persona che sa calcolare il conto del panettiere a mente senza sbagliare di un centesimo possa dimenticarsi d’assumere le pastiglie, costringendomi a telefonate quotidiane per ricordarglielo.
  Le passo la scatola, che afferra soddisfatta. L’impresa è quindi giunta al termine con successo; da buona Indiana Jones in gonnella potrei scendere comodamente dalla scala, salutare e uscire di scena trionfante, tornando alle mie incombenze, ma la curiosità è femmina e, così, mi blocco, soggiogata dal fascino dell’esplorazione.
Allungo le mani, afferrando una vecchia scatola di latta che, bassa e rettangolare, stuzzica la mia curiosità, mentre mia madre s’allontana stringendo a sé lo scrigno del tesoro. Rimuovo, con il dorso della mano, la polvere che ammanta il coperchio riscoprendo, con un sussulto, la superficie laccata su cui capeggia un ricco motivo floreale. Riconosco la scatola di biscotti che, costante fissa, era il fulcro delle colazioni nella mia infanzia. Palpito d’emozione dischiudendone il coperchio: assieme al profumo di biscotti, una miriade di ricordi, immagini e suoni fuoriescono, travolgendomi in un tripudio di sensazioni. Un turbine che mi riporta indietro nel tempo, sino ai giorni spensierati dell’infanzia, quando credevo che non potesse esistere altra vita se non accanto ai miei genitori.
In balia dei sensi, riesco quasi a cogliere il borbottare della moka che precede il diffondersi dell’aroma caldo e avvolgente del caffè; sento la casa risuonare magicamente delle nostre voci, gli strilli, le risate, i rimbrotti di mia madre e le battute di scherno di mio padre. Una profonda malinconia mi pervade ripensando ai giorni lontani e irripetibili; a una vita che pare così distante da sembrare soltanto un sogno. Ogni angolo della casa, ogni oggetto rivela ricordi che credevo essere sprofondati nell’oblio, mentre ora, fervidi e nitidi, riemergono lasciandomi senza fiato. Immagini che, pur susseguendosi veloci come fotogrammi, mi lasciano, però, il tempo di riassaporare il gusto dolce delle felicità: le labbra della buonanotte di mia madre, bacio caldo e lieve; le sue carezze dolci sui miei capelli, la voce avvolgente di mio padre che, leggendo storie avventurose, m’incantava con un fiume di parole su cui, come una barchetta di carta, mi lasciavo trasportare attraversando mondi fantastici. Rammento il cristallino cinguettio del canarino che, risuonando nel tinello, pareva volermi suggerire le risposte quando, al mattino, ripassavo la lezione di storia.
  Emozionata dai ricordi, vorrei acciuffarli e stringerli a me per non smarrirli nuovamente, ma, volatilizzandosi come profumo di glicine, svaniscono inafferrabili.
   Cala il silenzio, riportandomi al presente; le voci vanno mestamente tacendo. Un silenzio rotto solamente dallo stanco ticchettio del vecchio orologio a muro. La casa riacquista quel vuoto iniziato con la mia adolescenza: quando la voglia d’indipendenza mi spingeva, come un uccellino sul bordo del nido, a spiccare il volo verso un mondo aperto e inesplorato. Un vuoto reso incolmabile con la scomparsa improvvisa di mio padre. Soltanto ora mi domando come mia madre possa essersi abituata a questo silenzio, addormentarsi o svegliarsi la mattina in quell’enorme letto vuoto; cucinare, apparecchiare, mangiare sempre sola. Respirare un’aria impregnata di ricordi, fotografie, emozioni che, aleggiando nell’aria, la riportano a quella vita dissoltasi nel tempo.
Comprendo ora che, sentendosi inutile come una girandola chiusa in un armadio, s’aggrappa alle mie brevi visite elargite con il contagocce per riassaporare ancora un surrogato degli antichi fasti, di quella felicità che, seppur precaria fra mille alti e bassi, era, in ogni caso, il sale della vita. Vuole accertarsi che qualcuno s’adopera ancora per lei, riudire dei passi famigliari o il tono della mia voce riecheggiare fra queste mura per sentirsi ancora viva e non sepolta in un mausoleo foderato di nostalgie. 
Controllo a stento un nodo alla gola. Un caldo impulso mi spinge verso di lei con la voglia di stringerla in un abbraccio.
  Simile a un re magio, tenendo la scatola di latta come fosse uno scrigno di mirra, m’avvicino a lei che, seduta nel tinello, mi guarda stranita. Limpidamente, fissandomi negli occhi, mi dice: «Domani potresti passare dall’ufficio postale?»
  Senza risponderle, depongo delicatamente la scatola sul tavolo. Osservo in silenzio le sue dita ossute, pervase da un leggero fremito, che accarezzano dolcemente la superficie liscia della scatola. Senza dire nulla, alzandosi dalla sedia, m’avvolge in un abbraccio materno, dimostrandomi, per l’ennesima volta, che forse sono io ad avere ancora bisogno di lei. 


Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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