di Pierangelo Colombo

venerdì 18 gennaio 2019

Il primo giorno di scuola


    Il primo giorno di scuola, specie passando dalla primaria alla secondaria, può essere carico di aspettative, ma anche di ansie. Se poi i genitori, loro malgrado, sono una fonte di imbarazzo, allora, la frittata è fatta.
   Oggi voglio dedicarvi un racconto breve, ironico, ma con una sottile vena di realismo.
   Buona lettura.



Il primo giorno di scuola


   La zampa di un orso con lunghi artigli. Una tartaruga con un passero sul guscio; la testa di un rinoceronte
   Esamino tutte le venature maculate delle piastrelle, creandone figure astratte. Un misero tentativo di frenare i pensieri che, a centinaia, sembrano lanciarsi in picchiata dal cervello sino a rimbalzare nello stomaco come palline da ping-pong.
«Lara? Sei ancora viva? Sono le sette e mezza!»
«Sì, papà, ho finito».
Sono diciassette minuti che me ne sto seduta sulla tazza del cesso. Secondi che, a intermittenza, sfrecciano come una moto giù per la strada per poi farsi lunghi come una quaresima. Le gambe indolenzite iniziano a farmi male. Un miscuglio d’ansie mi contorcono le budella scacciando ogni bisogno corporale.
Undici settembre: mai ricorrenza nefasta poteva essere così azzeccata nel combaciare con il mio primo giorno di scuola. Scuola Secondaria di Primo Grado, mi correggerebbe la maestra Elena; perché gli adulti devono sempre complicare ogni cosa? Perché, quando i miei genitori si sono sottoposti a questa tortura si limitavano a chiamarla scuola media?
Già, la maestra Elena; oggi non troverò il suo volto rassicurante. Fra poco meno di un’ora conoscerò i nuovi professori: Mariani, Cazzaniga, Frisoni, nomi e cognomi che in questi brevi, troppo brevi, mesi estivi ho imparato a memoria. Così come ho memorizzato, a mo’ di poesia, l’elenco dei compagni che andranno a comporre la prima B. Oggi non avrei certo difficoltà a chiamare l’appello. Ho trascorso ore stesa sul letto, magari durante un temporale, a studiare, attraverso l’onomastica, i probabili compagni di persecuzione; cercando d’assegnare un volto ad ogni nome, immaginandone il profilo di simpatia, avvenenza o smorfiosità. “Nome omen” come dice a volte papà; cosa ci si può aspettare da una Daria Tromba o da una Rosa Pisello? Per non parlare di Felice Vaccaro.
«Lara! Non vorrai far tardi il primo giorno?»
«Arrivo, papà! Arrivo!».
Perché? Perché fra me e quella peste di mio fratello ci dovevano essere proprio cinque anni di differenza? Perché la mamma ha scelto di accompagnare lui nel suo primo giorno di scuola, lasciando a me papà? In fondo, si tratta soltanto della prima elementare, la succursale della materna; il mio, invece, è un tuffo nel buio. Con papà, poi, una persona che saprebbe metter ansia al Dalai Lama.
Sono mesi che mi ripeto che, in fondo, è una scuola come le altre, che non ho nulla da temere, a parte le notizie dei telegiornali catalizzate dall’ansia crescente di mamma: bullismo, baby gang, pedofilia, droga, fumo e pediculosi. Certo, sarei più tranquilla se ci fosse almeno uno dei compagni della primaria. Un viso conosciuto; mi accontenterei persino di Samu: il massimo dell’antipatia, una vera macchinetta per far peti e produrre caccole, ma pur sempre amico mio. Invece no, il “papi” ha deciso che sarebbe stato meglio per me frequentare la scuola che ha instillato in lui il sapere, che ha dato inizio alla sua ascesa verso l’olimpo del potere; scuola che, per giunta, è di strada verso il suo studio. Non importa se non conosco nessuno, o se si trova dall’altra parte di Milano. Così ha deciso e così è; l’ha sancito con un colpo di mano sul tavolo, come fosse il martello del giudice.
Dio, ti prego, fa che quella che vedo nello specchio non sia io imploro. Uno scorfano avvolto nella carta da regalo. Sembra che abbia rispolverato il vestito della prima comunione; cosa c’era di male in un paio di jeans scoloriti, una t-shirt di una misura più grande e un paio di Nike? Invece no, papà afferma che è la prima impressione quella che conta: “Siamo quello che appariamo”, ma così conciata sembro l’ultima figlia della serva.
La mamma, poi, mai una volta che mi capisse; probabilmente lei è nata adulta, “imparata”, non ha vissuto la mia età, non ricorda l’imbarazzo di presentarsi davanti a venticinque coetanei vestita come un manichino di Armani, con una capigliatura che urla: “Arrivo ora dal parrucchiere” e dei brufoli spuntati nella notte come funghi.
«Uè, Nani, forza che la storia ti aspetta».
«Ho finito, papà».
Vorrei morire. Ho una gran voglia di piangere, ma devo trattenermi; oggi ci mancherebbe soltanto la paternale sulla sicurezza in me stessa, l’autostima, il mondo è dei forti e mille pippe su come lui ha fatto questo e ha fatto quello. Un cazziatone intergalattico in grado di farmi sentire una merda, estranea alla sua dinastia.
La testa mi scoppia; domande, dubbi vi frullano formando paure: e se Chiara avesse ragione? Se la media del nove mi fosse stata “regalata” dalla maestra Elena perché le ero simpatica? Se papà non fosse un uomo importante avrei avuto gli stessi voti?
Affronto a testa alta il corridoio che dal bagno porta alla camera da pranzo. Dissimulo ogni emozione avviandomi verso la tazza di latte che, come cicuta, mi attende a tavola. Vorrei fuggire, prendere il tram che porta in centro, vagare per le vie stemperandomi nella gente. Mi seggo, invece, sorridendo a papà che, incravattato, mi porge i biscotti. Lo stomaco è asserragliato come Troia assediata dagli Achei. Perlomeno, qualche nozione di storia affiora dalla nebbia che offusca il cervello.
La fame mi è più lontana di Alfa Centauri. Il latte, che ingurgito a forza, sembra scivolare nello stomaco come pioggia su di un terreno troppo arido. Vorrei evitare questa tortura che mi lascerà lo stomaco in subbuglio per tutto il giorno, ma gli occhi di papà mi sorvegliano come un secondino che controlla il prigioniero pronto alla fuga.
«Andiamo!» esclamo, per sospendere un gioco che non riesco più a sostenere.
«Certo; sistemo una cosa e arrivo» risponde papà, scartabellando scartoffie nella sua borsa da lavoro. Mi seggo sul bracciolo del sofà, mentre lo sguardo corre a una foto di famiglia, a quando si viveva ancora tutti sotto lo stesso tetto. Una foto che sembra sbucata dal film La stanza del figlio, dove, sorridenti, non immaginavamo ancora lo svincolo che avrebbe separato le nostre strade.
Il pensiero corre a mamma che, a casa, starà vestendo Nicolò, sicuramente imbambolato davanti alla tivù, mentre la cartella nuova anela di salirgli in groppa.
«Presto. Presto che è tardi!» tuona papà, mentre, come la dea Kali, con le mani riesce ad afferrare: borsa, chiavi, occhiali da sole, iphone e giacca. Il rumore della serratura, che sigilla la porta blindata, riecheggia per il ballatoio, mentre il vociare di una signora risale la tromba delle scale.
L’odore di nuovo contrasta con l’aria vissuta e i post-it sparsi sul cruscotto del SUV di papà. Ho sentito soltanto parlare della teoria della relatività, e spero sinceramente di non doverla approfondire, ma quale esempio più esaustivo della guida di mio padre per dimostrare che il tempo è relativo? L’orologio sul cruscotto sembra frenato dalla velocità con cui sfrecciamo, scartando le altre auto come fossero birilli. Non mi stupirei se arrivassi a scuola un minuto prima di quando sono salita in auto.
L’uscita della tangenziale segna il punto del non ritorno: imbucato viale Padova nessuno potrà più salvarmi; mille occhi m’attendono, con scherni, battute e derisioni per l’apparecchio ai denti, i vestiti, i brufoli, la pancia, le scarpe, le unghie e persino la marca del dentifricio che uso.
La macchina rallenta, tuffandosi nel traffico cittadino. Scatta allora l’illusoria furbizia di papà: scartando di lato, aggredisce vicoli tortuosi come un predatore che piomba sulla sua cena. Un bisonte che si crede agile come un furetto, ma s’incaglia nella prima strettoia insultando il destino e la scaltrezza di altri che, come lui, erano convinti d’aver scovato la chiave segreta del mondo.
L’edificio scolastico affiora da dietro un angolo nella sua cruda austerità. Finestre aperte, pronte a inondarci di sole e sonnolenza. Lo scarto improvviso dell’auto mi scaraventa contro il finestrino, appena in tempo per scorgere il dito medio alzato di un ragazzo, cui abbiamo tagliato la strada impedendogli di attraversare sulle strisce. Afona getto uno sguardo a papà che, imperturbabile, sorride sottintendendo un: “Tutto a posto, Nani!”
“Ti prego, fai che non sia della mia scuola; fa che non mi riconosca” supplico il Dio dei liceali. Preghiera interrotta, però, quando, investendo una pozzanghera, schizziamo un gruppo di ragazzine che, furibonde, c’indirizzano una sequela d’insulti. Vorrei sprofondare ma, impietrita, resto a far bella mostra di me, lasciandogli il tempo di abbozzare un identikit dettagliato. Le lacrime stanno per tracimare, mentre il volto imperterrito di mio padre scruta un possibile parcheggio. Vorrei urlargli di andar via, di portarmi a fare una plastica facciale, di spergiurare di non essere mio parente, ma un vicino che si è offerto per un passaggio. Ma al peggio non v’è fine: un posto libero fra una fila di auto appare a illuminargli il volto. Una berlina s’è già fermata e, inserendo la retro, mostra l’intenzione di impossessarsene. Un topino al confronto del volpone di mio padre che, con un affondo sull’acceleratore e un colpo di clacson, spegne sul nascere ogni illusione della sprovveduta al volante.
«Ma papà, è arrivata prima lei» sbotto, non trattenendo la stizza.
«Vince il più forte! Ricorda, nani, il mondo è dei furbi».
Impietrita, volgo lo sguardo alla signora che, furibonda, abbassa il finestrino apostrofandoci come incivili, rozzi e coglioni. Impavido e noncurante, mio padre scende per accompagnarmi sin dentro il cortile della scuola. Vorrei restare sola, scappare, piangere, ma la confusione in cui sono sprofondata è tale da sembrare un’ameba agli occhi dei futuri compagni. Sto ritta, con il capo chino, come uno struzzo che non sa dove nascondere la testa. Ascolto l’incaricato fare l’appello, raccogliendo le reclute delle prime. «Agostani Ilaria, Bellini Sara».
“Ecco, tocca a me; fra Buzzi e Crippa ci sono io”.
«Buzzi Samuele, Colussi Lara, Crippa…»
Una scarica elettrica mi investe, come il suono del gong che dà inizio a un incontro di pugilato. Alzo la testa, non per il coraggio ritrovato, ma semplicemente per non andare a sbattere da qualche parte. Mi dirigo verso la fila della prima B che va costituendosi; davanti a me il ghigno soddisfatto di Buzzi Emanuele: il ragazzo del medio alzato.
Il cuore mi si ferma. “Grazie, Dio, che ascolti sempre le mie preghiere”. Mi volto per non guardarlo e noto le ragazze con i vestiti inzaccherati che mi fissano astiose dall’ingresso: “Perfetto, sicuramente saranno di seconda o, peggio, di terza”.
Le lacrime iniziano a colarmi lungo le guance, la vista si fa acquosa ma, nonostante ciò, riesco a riconoscere nella professoressa davanti a noi la donna del parcheggio.
Chi ben inizia…



Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta Prospettive, 2017

Nessun commento:

Posta un commento