di Pierangelo Colombo

giovedì 24 gennaio 2019

Mai dimenticherò


Il terrorismo, di qualunque matrice, politica, ideologica o religiosa, è una delle più bieche e barbare azioni che un uomo possa compiere. A farne le spese sono persone innocenti e inermi, inconsapevoli che un’azione folle possa mettere termine alla propria vita e segnare di un dolore incancellabile quella dei sopravvissuti.
Oggi vorrei dedicare questo mio racconto a quelle persone cui è stata negata la libertà di vivere e gioire. Per non dimenticare mai le vittime.


Mai dimenticherò


Nello scorrere della vita accadono avvenimenti in grado di deviarne la traiettoria. Eventi improvvisi che ci piombano addosso come una slavina che investe un giovane albero, piegandolo sin quasi a sradicarlo. Il tempo aiuterà la sua determinazione a crescere e il tronco tornerà perpendicolare al terreno, ma alla base, a memoria, ci sarà sempre quella piega, quella curvatura, a rammentare la violenza subita.
A distanza di anni, i ricordi sono ancora nitidi. La stazione Termini era un brulicare di gente; lingue straniere formavano un’intricata ragnatela dove s’impigliava la voce che, dal megafono, annunciava partenze e ritardi, mentre i carrelli, carichi di bagagli, intralciavano il passaggio.
«Eccolo! È il nostro» gridò mio padre, all’annuncio dell’espresso Roma-Monaco di Baviera con il relativo binario. Il timore di restare senza posti a sedere ci fece scattare in una sfida contro gli altri passeggeri. Momenti concitati di cui serbo ancora il ricordo, come l’odore del convoglio ferroviario, la vernice opaca dei vagoni, i lunghi corridoi percorsi nell’affannosa ricerca di tre posti liberi. Gli scompartimenti allineati come piccole cellette dove i passeggeri ronzavano sistemando i bagagli.
La tensione venne smaltita quando, preceduto dai tonfi degli sportelli, il convoglio iniziò a muoversi pigramente, lasciando Roma incendiata da un tramonto estivo. In breve, gli scompartimenti si tramutarono in bivacchi: l’odore di soppressata e cotolette impanate si mescolava al vociare allegro della gente che, trascorsi pochi minuti, aveva fatto conoscenza presagendo quella caciara che mitiga la noia del viaggio.
Personalmente, ero annoiato dai discorsi degli adulti; sbruffando, andai in cerca di qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. In barba alle raccomandazioni di mia madre, decisi di varcare quella soglia inquietante che, sferragliando, separava la nostra vettura dalla seguente. Richiusa la porta alle spalle, vidi, seduto nel corridoio, un ragazzetto dai capelli scompigliati intento a sfogliare un mazzo di figurine.
«Ce l’hai Chinaglia?» chiesi, palesando l’orgoglio laziale.
«Certo!» rispose. Il ghiaccio era rotto: nulla era più propizio di un mazzo di figurine per far amicizia. Per qualche strana alchimia, nacque subito una confidenza spontanea; ci raccontammo in breve, tralasciando di presentarci: a volte, i nomi sono orpelli inutili. Scoprimmo di avere molto in comune: entrambi quattordicenni, odiavamo la scuola sognando di diventare calciatori professionisti. 
«Io sono un terzino» disse, orgoglioso.
«Io attaccante» ribattei, tronfio. Esaltandomi, mi attribuii dei gol che «Pelé se li sogna». Fantasticammo campionati dove sfidarci in partite memorabili; sfide che, a confronto, Italia-Germania era una partitella da oratorio.
«Il mio campione!»
La voce di sua madre ci colse di sorpresa: era uscita in corridoio e, passando, gli fece una carezza scompigliandone i capelli. Lo vidi avvampare per la vergogna, ma lo compresi.
Il buio, intanto, era sceso a nascondere il paesaggio. Le luci del vagone trasformarono i finestrini in specchi dove fluttuavano i nostri riflessi. Il tempo volava, gareggiando in velocità con il convoglio; le luci delle stazioni sfilavano come lampi oltre il finestrino. Prossimi a Firenze, molti viaggiatori si erano appisolati mitigando il vociare. La quiete fu interrotta dall’improvviso scappellotto di mio padre che, furioso, mi stava cercando. Sorbii la paternale lungo il tragitto verso il nostro scompartimento. Mesto, mi sedetti accanto al finestrino cercando di carpire i profili di un paesaggio appena accennato dalla luce della luna.
Oltrepassata Firenze, il convoglio iniziò a intrufolarsi fra le valli appenniniche sferragliando nelle gallerie; nella vettura c’era silenzio quando, poco dopo la mezza, lo vidi apparire nel corridoio mostrandomi fiero la figurina di Chinaglia. Chiesi il permesso di uscire.
«Tieni» disse, offrendomela. «Tanto per me è doppia».
«Grazie» risposi, trattandola al pari di una reliquia.
«Hai una ragazza?» chiese, in un bisbiglio.
«Certo» risposi, arrossendo per la meschina menzogna.
«C’è una ragazza che mi piace, ma non so come fare» si confidò, abbassando lo sguardo e facendosi paonazzo. Ricordo ancora il luccichio degli occhi nel descrivermi quella che considerava la ragazza più bella del mondo. «… e poi ha una piccola voglia sotto l’occhio destro, proprio sopra lo zigomo. Una macchiolina color cappuccino a forma di goccia».
Sospirava descrivendola, s’illuminava con sorrisi immensi appena velati di rimpianti e imbarazzi.
«Fino a qualche mese fa era solo una compagna di classe come le altre» disse. «Siamo stati vicini di banco e non ho mai provato nulla. Ma un giorno, non so come, nel vederla entrare in classe mi sono sentito mancare, come una pallonata nello stomaco che ti lascia senza fiato. Da allora, non riesco a pensare ad altro. Per lei rinuncerei a qualunque partita».
Quell’affermazione mi lasciò sbalordito: per me era una bestemmia.
«Ma non trovo coraggio di farle capire…» Sospirò, cercando consiglio. «Ho comprato questo per lei; credi le piacerà?» chiese, mostrandomi un braccialetto di cuoio intrecciato. «Però, non so come darglielo». Era cotto quanto una pera, ma non trovava nemmeno il coraggio per un apprezzamento. 
Del tutto impreparato sull’argomento, proferii bestialità inconcepibili con il senno di poi. Battute di film mal digerite e, quindi, maldestramente adattate alla situazione. Lui ascoltava speranzoso, attento a non farsi sfuggire una parola; credo, però, si sia reso conto della mia puerilità. Per non offendermi, finse interesse, ma l’espressione delusa fu eloquente. Il treno, intanto, ci sballottava scorrendo sui binari che seguivano le valli buie. Parlammo sino a quando gli occhi iniziarono a bruciare per il sonno represso. Fu allora che ci salutammo; nessuna stretta di mano o scambio d’indirizzi, soltanto un semplice e onesto “ciao”.
Accucciatomi al mio posto, pensavo alla meta ancora lontana, mentre il dondolio della carrozza mi cullava incoraggiando il sonno.
Dormivo della grossa quando, improvviso, un boato parve squarciare la terra, seguito da uno scossone impressionante che, in un batter di ciglia, mi sbalzò sul pavimento. Una cannonata esplosa a poca distanza, un’esplosione che rimbombò nella galleria sballottando il treno. Un boato che ancor oggi, come una bastonata, va a spezzare la ragnatela di ricordi riducendo la trama in un ammasso di grovigli.
Il bagliore, le urla, il fumo. La paura che saettò nella vettura illuminata soltanto dalle fiamme che provenivano da fuori. Il fumo acre e denso che penetrava da ogni fessura assieme a un calore allucinante. L’odore nauseabondo di morte che si spandeva, terrorizzandomi. E poi le urla, gli strilli di dolore che penetravano nel cervello come aghi incandescenti.
Rammento le mani di mio padre che, afferrandomi, mi strapparono dall’inferno portandomi fuori, in una corsa verso i campi. Da lì, la visione spettrale del vagone in fiamme; il treno pareva una bestia ferita, mentre delle torce umane, strillando, si divincolavano al suo interno.

Era il 4 agosto ’74 e il treno si chiamava Italicus; dati che, prima dell’una e ventitré di quel giorno, erano insignificanti per un ragazzo della mia età, mentre oggi, restano come una cicatrice a rammentarmi l’ineluttabilità del destino. Seduto in quella maledetta carrozza avrei potuto esserci io. Il mio nome, assieme a quello dei miei genitori, sarebbe potuto comparire fra i dodici martiri di quella follia umana. Dodici morti, fra cui un ragazzino di quattordici anni e la sua famiglia. Un ragazzino dai sogni e dalle speranze comuni, un ragazzino come tanti, ma a cui è stato negato il diritto sacrosanto di vivere e amare.
Quel viaggio cambiò la mia vita: smisi di giocare a pallone, così come non presi mai più un treno. In quel viaggio, su quel convoglio, assieme alla spensieratezza e alla figurina di Chinaglia, persi un amico.
Quel boato, come un colpo di spugna, cancellò i miei sogni e la mia fanciullezza scaraventandomi in un mondo di incubi e paure.

  Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.  

Elie Diesel


Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta Prospettive (2017)


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