di Pierangelo Colombo

giovedì 31 gennaio 2019

Una felpa fucsia


Stereotipi, pregiudizi, cattiverie gratuite; a volte le parole possono essere pietre, dure, acuminate e letali. Come può una ragazzina sapersi difendere dai luoghi comuni? Quanta sofferenza nel vedersi tramutare un desiderio realizzato in un incubo.
Oggi voglio presentare un mio racconto breve dedicato proprio ai pregiudizi della gente.
Buona lettura.


Una felpa fucsia



Passo leggero e un’espressione rilassata, da cui traspira un’euforia insolita; chiunque conosca Erika abbastanza bene giurerebbe, nel vederla camminare spedita e briosa con lo zaino sulle spalle, che sia all’ultimo giorno di scuola e, con l’eco dell’ultima campanella nelle orecchie, brami di gettare i libri sulla scrivania dimenticandosene per l’intera estate. Ma il calendario confuta questa ipotesi: è il 7 gennaio; i mucchi di neve sporca negli angoli della strada ne danno testimonianza. La direzione che la ragazza percorre, oltretutto, non l’allontana dalla scuola, ma conduce dritta proprio là, dov’è lo stridore di denti.
Erika sembra ansiosa di riprendere le lezioni interrotte dalle vacanze natalizie, ma la sua testa è ad anni luce dalle particelle pronominali. La sua euforia è legata a una felpa, anzi “la” felpa: capo che, secondo le vestali della moda giovanile, è credenziale assoluta per conquistare un posto nel club delle ragazze in.
Seguendo la transumanza lavorativa del padre, Erika si era trasferita nella cittadina sul finire dell’estate. Rimpiangendo i compagni della primaria, a settembre aveva dovuto fronteggiare non solo la novità della prima media, ma anche una selva di coetanei del tutto sconosciuti e, soprattutto, quel suo cognome che la bolla quanto una lettera scarlatta: Radoz, casata che la marchia indicandone le chiare origini slave. Extracomunitaria, come se la parola indicasse una scientifica inclinazione, incisa nel DNA, a delinquere. Nero su bianco, i titoli dei quotidiano certificano: “ Catturata banda di slavi”; “Gli aggressori avevano l’accento balcanico”; “Extracomunitario scippa pensionata”. Benzina sul fuoco della sovrana vox populi.
Erika sperava di lavare la propria “colpa” adeguandosi allo stile di vita delle coetanee. Fin dal primo giorno di scuola, si era sentita una recluta in abiti civili inquadrata in un plotone di commilitoni in alta uniforme. Era orgogliosa, quindi, della felpa fucsia che indossava, costata un vero salasso ai propri genitori. Avrebbe voluto togliersi il giubbotto per esibirla come un trofeo, proprio come da mesi faceva Chiara che, femmina alfa, l’indossava come una seconda pelle.
«Ciao» la salutano le compagne al suo arrivo.
«Ciao» risponde Erika, impaziente di sfoggiare la felpa.
«Hai sentito cosa è successo a Chiara?» Capta la conversazione fra due compagne. «L’altra sera, i ladri le hanno svaligiato casa».
La notizia getta Erika nel panico: l’ennesimo furto comporta l’ennesima accusa sottintesa alla sua gente, a suo padre; opinione dettata da stereotipi collaudati: rumena è uguale a prostituta, albanese è uguale a ladro.
«Hanno rubato oro, orologi, computer. Sua madre ha detto che hanno persino svuotato il frigorifero, lasciando gli avanzi sul tavolo. Hanno preso persino i vestiti. Anche quelli della Chiara».
Una scossa elettrica attraversa Erika, lasciandola basita: la felpa. Chiara aveva la stessa medesima felpa, stesso il colore, stessa la taglia. Un déjà vu che la riporta indietro di alcuni anni, a quando, in terza primaria, a un suo compagno era sparito l’astuccio e, inesorabilmente, l’ombra del dubbio era calata su lei che, arrivata da poco, parlava un italiano stentato, vestiva gli indumenti smessi del fratello, ma aveva i pastelli colorati nuovi di zecca, come quelli del derubato.
Erika sa cosa significa lottare contro i pregiudizi, le frasi della gente, le occhiate d’accusa dei compagni, la difesa titubante dell’insegnante. Un’esperienza che l’aveva portata a non chiedere nulla ai compagni, nemmeno in prestito. All’insaputa della madre, raccoglieva e conservava ogni scontrino che potesse attestare la proprietà della cancelleria.
Attonita, segue il labiale della compagne, ma il pensiero batte come un martello: “E se Chiara dice che la felpa è la sua?” Le guance avvampano. “Devo stare calma: arrossire è come confessare”. Chiude la zip del giubbotto sino al mento: “Non devono vederla” pensa, mentre le dita uncinano il bordo delle maniche, tirandole il più possibile per coprire i polsi.
La voce di Chiara deflagra alle sue spalle, una vibrazione che Erika sente scivolare lungo la schiena come le spire di un boa pronto a soffocarla.
“Devo fare qualcosa!” pensa, ma il tempo corre veloce e la campanella incombe. In aula, toltasi il giubbotto, l’avrebbe attesa la berlina.
«Ti senti bene?» chiede Sara, vedendone il pallore.
«Ho mal di pancia» risponde, cogliendo la palla al balzo un istante prima del trillo della campanella.
«Ti prego, di’ che sono assente; torno a casa, non mi sento bene».
«Va bene, ma…» Sara non ha nemmeno il tempo di rispondere; Erika fugge, scomparendo dietro l’angolo.
Le lacrime le scendono calde sulle guance pallide, la felpa si fa rovente addosso. La stessa felpa fucsia desiderata più di ogni altra cosa, per la quale i genitori avevano fatto dei sacrifici pur di regalarle un Natale indimenticabile.
Cammina senza meta lungo la via che esce dal centro abitato. Il cielo plumbeo promette pioggia, mentre dei muratori imprecano in un cantiere. Pensa a suo padre, ai sacrifici nel lavoro faticoso; ripensa al pomeriggio in cui l’aveva accompagnata alla boutique. L’imbarazzo di lui quando la commessa aveva chiesto in cosa poteva servirlo. Gli occhi lucidi d’emozione per la figlia.
Erika singhiozza, al pensiero di disfarsi della felpa che potrebbe rivelarsi un capo d’accusa. Le manca il fiato al pensiero, ma non sopporterebbe gli sguardi dei compagni.
Come giustificare alla madre questa sua rinuncia? Conoscendone l’indole, la matriarca istituirebbe un tribunale inquisitore per carpirne la verità, con le inevitabili arringhe finali sull’orgoglio, la difesa dei propri diritti e tanti sacrosanti assalti ai mulini a vento.
Alcune rade gocce di pioggia cadono a punteggiare l’asfalto come piccoli coriandoli. Erika si ferma davanti a una vecchia recinzione metallica. Guarda distratta un vecchio cane che, seduto nel prato, la osserva a sua volta; troppo stanco per alzarsi e controllare l’intrusa.
Scorrendo sulla rete gelata, la mano della ragazza scova il capo di un fil di ferro che, sporgendo, forma un piccolo uncino. Il sangue le si raggela nelle vene quando l’idea prende forma nella sua mente. Delle mille ipotesi costruite, forse, è la più dolorosa, ma anche inevitabile. Si sfila il giubbotto e lo appende alla recinzione; poi, con mano tremante, infila l’uncino nella manica della felpa, poco sopra il gomito. Trattiene il respiro, come se l’ossigeno sia stato bruciato da una vampata. Un colpo deciso, e il rumore dello strappo ne percorre le vene sino a lacerarne il cuore. Uno squarcio che libera rimorsi, collera e delusione. Le lacrime le rigano il volto, mentre fa ritorno a casa, preparando le menzogne da raccontare ai genitori.


Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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