di Pierangelo Colombo

giovedì 14 febbraio 2019

La lettera

  Le nuove tecnologie, con la loro velocità, ci hanno fatto perdere il piacere e l’ansia di attendere una lettera. Un messaggio scritto con bella grafia, magari dalla persona amata, che sapeva farsi più bello fra i doni, una speranza, un sospiro.
  Oggi voglio dedicarvi un mio racconto; un soldato di prima linea che riceve una lettera che stringe a sé assaporandone l’odore.
  Buona lettura.

 La lettera


  Il silenzio fa paura. Difficile associarlo alla guerra, a questa maledetta trincea dove, quando non ci sono spari, si parla per assicurarsi d’essere vivi. 
  In prima linea, il silenzio è il preludio dell’assalto: l’anticamera della morte. L’assalto è un tiro a dadi con la sorte, non si può barare. Questo è il terzo in sei settimane; il sesto da quando sono al fronte. Dovrei esserci abituato, invece, è sempre peggio. 
  Questo silenzio gela le ossa più della neve, ed è rotto soltanto dal bisbiglio di chi ancora crede e, quindi, prega. La mia fede è saltata in aria insieme a Giovanni, nel secondo assalto, quando una granata ha cancellato la sua vita mandandolo in frantumi; alcuni sono rimasti appiccicati alla mia divisa. Istanti che cambiano la vita e il cervello. 
  Non si può descrivere quello che in natura non esiste: l’uomo ha creato una mostruosità tale. Fumo, pallottole, urla, esplosioni, paura e incoscienza si mescolano grazie alla quantità di alcol ingollata per accendere un coraggio che, altrimenti, non c’è.
  La nostra artiglieria tace da dieci minuti; ha bersagliato la collina nemica dissodando il terreno. Ora, però, i cannoni tacciono, e aspettiamo l’ordine urlato a squarciagola che ci proietterà in campo aperto. Una corsa verso la morte, la quale, con tanti ragazzi a disposizione, dovrà scegliere dal mucchio, senza il tempo di guardare in faccia la vittima. Una corsa verso il filo spinato, cercandovi un varco, mentre il sibilo delle pallottole graffia l’aria. Ognuno reagisce a suo modo: chi urla, chi impreca, chi, come me, ascolta il proprio affanno ritmato dalla corsa. 
  Oggi correrò più forte che posso; c’è un avvallamento ai piedi della linea nemica: chi prima arriva può riparare dietro un terrapieno naturale, chi s’attarda non trova posto restando allo scoperto. L’altra volta ero fra questi; mi sono gettato a terra strisciando come un verme e aspettando l’ordine della ritirata. Una costante prevedibile, ma non meno pericolosa dell’assalto: l’unica differenza è che la pallottola fatale ti prende alle spalle, magari a pochi metri dalla salvezza.
  E pensare che solo un anno fa non sapevo nemmeno dell’esistenza del Carso, degli austriaci e di questa guerra. Il mio mondo era limitato al paesello e al casale dove la mia famiglia presta servizio. Invece di un fucile imbracciavo una vanga, la falce, la forca. Mi svegliavo prima dell’alba per mungere e d’estate lavoravo fin che c’era luce falciando l’erba. Cosa darei per sentire ancora il sole a picco sulle spalle, l’odore di paglia e il raglio dell’asino legato al carretto.
  Mi hanno detto che dobbiamo ammazzare gli austriaci e io lo faccio, anche se non ho ben capito il perché. Sono ragazzi come noi, hanno una famiglia. I nostri politici hanno promesso che, a guerra finita, ci daranno della terra. Per questo non ho ancora sparato a quel bastardo del capitano Pini; per non essere fucilato, certo, ma anche perché voglio un terreno tutto mio, fertile e già dissodato.
  «Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et…» 
  Il cappellano passa gettando acqua benedetta.
«Amen» rispondo; mi chiedo se anche il nemico raccomanda l’anima allo stesso dio. E se un dio c’è, da che parte sta? 
  Il fucile trema per me, mentre le mani lo stringono forte. Trattengo a stento un conato di vomito; lo stomaco è vuoto, non ho nulla da rimettere.
  «Tieni» bisbiglia Lauro, porgendomi una busta. Sfreccia via verso qualcun altro. Sbircio sotto la mantellina dove nascondo il messaggio ricevuto. Riconosco i segni, la grafia di don Marco: in paese è uno dei pochi che sa scrivere. Non so leggere, ma riconosco il nome di Annamaria, la mia morosa. La gioia di stringere fra le mani qualcosa di suo scioglie la tensione in lacrime. Una gioia forte quanto un’esplosione, una mano invisibile che accarezza l’anima, che solleva lo zaino pesante portato sulle spalle. 
  Vorrei correre dal sergente che, umano, traduce per noi contadini questi segni che colmano il cuore. Una gioia che cura le ferite al cervello, che resuscita il morale trattenendoci dal disertare. Una gioia che cancella la fatica, il puzzo di morte e fumo, che scalda dal freddo e allieva la fame. Non so cosa c’è scritto, posso, però, immaginare il suo viso, mentre detta al curato parole semplici, ma per me inestimabili. Non immagina cosa passo su queste montagne, lei che non ha mai visto che la nostra pianura.
Stringo forte la lettera, come fosse un santino capace di salvarmi. Non importa se si stropiccia, il sergente saprà leggerla ugualmente: ha già provato con fogli fradici di fango. 
  La porto al cuore, ma non riesco a infilarla nel taschino; voglio sentirne la consistenza, come se stringessi la mano di Annamaria. Nascondendomi con la mantellina, la porto al naso, per sentirne l’odore. Sa di carta, è ovvio, ma è un odore che ho imparato ad amare, che associo alla gioia, la stessa che provavo da piccino, quando, il giorno dell’Epifania, vicino al camino trovavo un giocattolo: un carretto di legno colmo di frutta secca. Sarebbe sparito il giorno dopo: buono per l’anno venturo, ma la frutta rimaneva e la centellinavo mangiandone una noce al dì.
  Sono prossimo all’assalto, ma sono sollevato, perché c’è qualcuno che pensa a me come un uomo, non un numero, un nome nell’appello. C’è una donna meravigliosa che brama il mio ritorno, progetta un futuro affidandomi la sua vita; che vorrebbe fare dei figli assieme a me. Dei figli che non dovranno mai, mai e poi mai fare la guerra. Che impareranno a scrivere e a leggere, così da non dover dividere con nessuno la gioia di una lettera come questa, perché, a dire il vero, ne sono geloso. Possono togliermi la libertà, obbligarmi a indossare una divisa, vivere come topo fra i topi, patire il freddo e la fame, spingermi come un vitello verso il mattatoio, ma mai potranno intaccare la gioia di sapermi nel cuore di lei, nei suoi pensieri, nei progetti di una vita futura.
  E se anche oggi dovesse essere l’ultimo, morirò con l’animo leggero, immaginando scritte quelle parole che mi sussurrava stesi sul pagliaio dopo aver fatto l’amore. Quelle promesse fatte stringendomi la mano. I sogni partoriti fra il sudore nei campi.
  Stringo forte il fucile, fisso la baionetta. Oggi non deve tradirmi, correrò più forte della morte, perché la vita è bella, la fatica è bella, i calli sulle mani, spezzarsi la schiena raccogliendo il grano, perché è meraviglioso scacciare la fame con un tozzo di pane bianco. Persino bisticciare per gelosia è bello, perché poi si fa pace facendo l’amore. 
  Voglio vivere, tornare a casa da Annamaria. Non berrò la razione di cognac, sarò lucido anche se comporta vedere l’inferno in terra, senza alcun filtro sugli occhi.
  La voce del capitano fa tremare l’aria, il cuore batte forte, le mitragliatrici nemiche iniziano a falciare vite. Un calore di fiamma mi avvolge; balzo oltre la trincea e inizio a correre. 

Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta Prospettive  (2017)


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