di Pierangelo Colombo

giovedì 21 marzo 2019

Il vecchio e il canarino


Ieri Angelo ci ha lasciati; insignito con ben cento primavere, per tutto il vicinato era nonno Angelo. Ci ha lasciati alla vigilia di questa primavera, con i ciliegi in fiore e le robinie che, fra qualche settimana, avrebbero inebriato l’aria con la fragranza dolciastra del polline, invitandolo, come sirene, a uscire di casa. Se n’è andato in punta di piedi, com’è sempre vissuto, con quella cortesia d’altri tempi e un sorriso per tutti.
Nell’ultimo nostro incontro mi chiese del canarino che, nelle giornate soleggiate, ponevo, appendendone la gabbia sotto la tettoia d’entrata di casa mia, proprio dirimpetto al portico dove lui, su di una seggiola, si godeva il tepore del sole. Ne parlava sorridendo, godendosi il ricordo di quel canto che, attraversando l’aia, arrivava ad allietarlo. Ironia della sorte, proprio oggi, quel canarino ha spiccato l’ultimo volo; carico dei suoi anni, ha lasciato immobile la piccola altalena su cui si dondolava e, da domattina, non colorerà più l’apertura della finestra al giorno salutando la luce.
Amo pensare che, Angelo e il canarino, si rincontrino nuovamente alla luce di un sole caldo e luminoso, allietandosi vicendevolmente con un sorriso e un canto squillante.


Il vecchio e il canarino



Mani fiacche e tremule muovono le ruote della sedia a rotelle, venuta a supplire gambe stanche e fragili. L’odore di stantio aleggia nell’aria, assieme allo scricchiolio della gomma sul pavimento. Un raggio di sole, insinuandosi nella fessura dell’imposta, squarcia la penombra incendiando il pulviscolo; una lama che traccia sul pavimento una meridiana di luce, orologio solare che, scivolando sul cotto, palesa l’inesorabile fluire del tempo. Minuti strazianti per il vecchio che, vagando per la stanza, accarezza ogni ricordo che vi aleggia.
Non c’è angolo, oggetto, graffio sui mobili che non rievochi malinconie di una vita lontana. Ricordi passati in rassegna in un ultimo saluto, prima d’essere reciso dalle proprie radici. Sfiancato, attende la resa come un soldato certo della disfatta. Una guerra contro la solitudine iniziata con il mesto addio a Manuela: vita, gioia, amore. Otto interminabili anni a sopportarne l’assenza, i più lunghi degli ottantatré vergati nelle ossa.
I ricordi sono le armi affilate con cui respingere gli assalti della solitudine, in una casa dove tutto parla di lei, compagna di vita, bella e fragile come una farfalla. Amore a cui non ha perdonato il torto d’essersene andata prima di lui. Ora teme che, partendo, non abbia abbastanza spazio nella testa per contenerne i ricordi, accumulati come tesori. Teme di scordarne la voce squillante, il luccichio cristallino degli occhi, la pelle vellutata.
Getta un’occhiata all’angolo della credenza, dove rigide scatole di farmaci hanno occupato quello che fu da sempre il posto delle MS senza filtro, pacchetto morbido. Il pensiero, però, rimbalza fra le pareti come la pallina di un flipper, attirato da quella maledetta valigia in camera. Un vortice da cui non riesce a sottrarsi. Ricordi atavici di quando, da bambino, era minacciato: “Se continui così, ti spedisco in collegio!”. Ironia della sorte, toccherà a suo foglio rinchiuderlo in una casa di cura.
Scivolato dalla sala verso la cucina, con gesti quotidiani, prepara la moka del caffè. Dal giorno dell’infarto, quando il cuore crepandosi ha iniziato a fare le bizze, non può berne. Un precetto del medico seguito scrupolosamente, ma non ha mai rinunciato al rito di mettere la moka sul fornello: adora sentire il borbottio della macchinetta, l’aroma spandersi per la casa rendendola viva; rassicurato dal calore amaro stretto nel palmo della mano. A salutarne il rito, saltellando fra una bacchetta e l’altra, il canarino che colora l’aria della cucina con il proprio cinguettio.
«Gran brutta roba la vecchiaia» replica il vecchio. «Che ne pensi, Zabaione?» Lo guarda teneramente. Dono dell’unico nipotino, l’uccellino doveva essere un compagno il cui canto avrebbe scacciato la malinconia del nonno; una voce che riempisse il silenzio della casa.
«La vecchiaia è un rampicante che ti si attorciglia addosso con lentezza» professa. «Senza che te ne accorgi, ti avvolge soffocandoti come le spire di un cobra; rallenta i muscoli, rimbambisce la testa, intorpidisce gli occhi e ti appesantisce. Ti fa tornare bambino. Vedrai che fra qualche tempo mi metteranno anche il pannolone». Sorride amaro. «Ma se mi lamento io, che vado dove sarò curato e riverito» prosegue, «tu cosa dovresti dire? Non sai nemmeno che fine ti spetta. Nessuno ha tempo per curarsi di te. Non c’è anima che possa trovare indulgenza e trattarti come un essere vivente. Acqua e becchime ogni due giorni, spazzare la gabbia una volta la settimana, vuoi mettere che impegno?» Stringe forte i pugni per il senso d’impotenza.
«Zabaione, che nome assurdo. Soltanto Nicolas poteva affibbiartene uno del genere. Ricordo ancora quando, raggiante, è entrato da quella porta reggendo la gabbietta. Aveva quattro anni allora, ti ricordi? Si metteva sempre sulle mie ginocchia fingendo di guidare il camion del babbo, mentre io facevo ruotare queste mie gambe per tutta la casa. Per fortuna, ho sempre avuto le braccia forti, da carpentiere, non come queste». Batte a mani aperte le cosce. «Che sono diventate molli come gambi di sedano appassito. E pensare che mi arrampicavo sulle impalcature come un gatto».
Il canarino, inclinando la testa, fissa il vecchio con l’occhio destro e ribatte cinguettando.
«Povero Zabaione. Se potessi, ti porterei con me a Villa dei Cedri». Sospira. «Chissà perché gli ospizi hanno sempre questi nomi da vivaio? Villa dei Tigli, delle Querce, delle Betulle o Fronde Ghiandose. Non credo, però, ci sia una Villa dei Cipressi, né tantomeno Villa dei Crisantemi: espliciterebbe l’idea del precimitero. Ma tu che ne sai di alberi? Sei nato fra le sbarre. L’unica foglia che vedi è l’insalata che ti metto io. Gli alberi ti fanno paura, ecco la verità».
Si burla. «Ricordi quando Nicolas ti ha aperto la gabbia? Disse di non averlo fatto apposta, ma poi, un giorno, mi confessò la verità: voleva regalarti l’esperienza di posarti su di un albero, anche se di Natale. E tu? Da buona ‘aquila’ quale sei, hai scagazzato per tutta la sala, ti sei posato su ogni mobile senza degnare d’uno sguardo quel povero abete spelacchiato». Ridacchia. «È stato divertente, però, vedere tutti rincorrerti per acciuffarti e rimetterti in gabbia. E io a sentirmi in colpa per aver riso il giorno di Natale senza la mia Manu».
Gli occhi tornano a inumidirsi. «Avresti dovuto conoscerla: l’avresti amata. Lei era un tozzo di pane bianco nella carestia, una sorgente fresca nella siccità, un riparo sicuro nella buriana, un’altalena in una gabbietta come la tua. Lei era speciale: energia per la vita, come un raggio di sole la cui luce s’infrange sul corpo illuminandolo, mentre la sua energia vi penetra riscaldandolo e infondendogli una forza straordinaria. Lei mi ha fatto accettare la vita dopo l’incidente. Ah, ma non pensare sia stato tutto rose e fiori. Quante discussioni, specie su Matteo: era una madre apprensiva. Dicono che l’amore non è bello se non è litigarello, quindi, se contassimo tutti i bisticci, il nostro non era bello, ma meraviglioso. Vivere assieme è stato un racconto scritto di getto, a cui non cambierei una sola virgola, anche se sbagliata».
Sospira. «Mi manchi» sussurra nell’aria. Un nodo alla gola ne soffoca il respiro e, singhiozzando, scoppia in un pianto dirotto. Lo lascia sfogare: l’emozione d’abbandonare casa e ricordi è ingovernabile.
«Meglio sfogarsi ora» confida, «che davanti a Matteo. È già abbastanza mortificato: non è facile nemmeno per lui. Ha una famiglia a cui badare, il lavoro e i debiti. Non merita altri pensieri. Ci manca solo un vecchio frignone fra i piedi. Lo so che gli spiace chiudermi là dentro, ma cosa può fare? Sono vecchio e mi serve una balia, ma una badante costa troppo: la pensione basta a mala pena per me. Venderà la casa e pagherà la retta dell’ospizio». Sospira. «Chissà chi verrà ad abitarci?»
Si guarda attorno, senza capacitarsi dell’idea. «Ricordo quando l’abbiamo comprata: era il tempo in cui i sogni facevano il tiro alla fune con i debiti. Ma allora eravamo giovani e forti».
Guarda trasognato le pareti della cucina, i ricordi si fanno vividi. Una catapulta che lo proietta a quel pomeriggio dove, entusiasti, stavano tinteggiando casa. Lei era bellissima: i lunghi capelli legati in una crocchia, le goccioline di tempera bianca che le disegnavano minuscole lentiggini sulle guance, mentre il sorriso innamorato sprizzava entusiasmo. Il sole entrava dalla finestra. Sfiniti dal lavoro, si erano presi una pausa, mentre dalla radio la voce di Battisti alleviava la fatica. La sala era ancora deserta, solo un tappeto persiano tessuto a Busto Garolfo.
Si amarono stesi sul quel tappeto, come fosse la prima volta, con un trasporto tale da farsi un tutt’uno, un solo respiro, un solo pensiero. Forse minuti, forse per ore: il tempo s’era annullato.
Il cinguettio del canarino ridesta il vecchio. Ed è proprio in quel limbo fra la realtà e il sogno, che, inebriato, crede di percepire il profumo di mughetto: il preferito della compagna. Istintivamente si volta verso la porta, pervaso da un brivido. Allunga il braccio, stendendo la mano verso qualcosa che solo il pensiero può percepire. Una sensazione di pace che l’avvolge come uno scialle, riscaldandolo.
«Per fortuna, non hai le orecchie grosse come le mie». Torna verso la gabbia. «Così senti solo un terzo delle panzane che sparo, il resto scivola via come gocce d’acqua sulle piume. Volevo salutarti e, invece, ti sto triturando gli zebedei con discorsi tristi. In fondo, vado in una casa di riposo camuffata da Grand Hotel. Manu diceva che la vita non è altro che una villeggiatura in questo mondo. Gli ospedali sono gli aeroporti: c’è chi arriva con un vagito e chi parte con un biglietto di sola andata, ma è comunque un viaggio e un viaggio ha sempre una meta. Peccato, però, che io abbia paura di volare». Sospira. «Tu, invece, non hai paura di volare, spero. Sai cosa ti dico? La libertà è un dono prezioso, non va sprecato. Quando io ero libero tu eri in gabbia, e ora che io sarò rinchiuso è giusto che ti faccia dono della mia libertà».
Posata la gabbia sulle ginocchia, il vecchio si dirige verso la finestra socchiusa. Entusiasta come un ragazzino, la spalanca respirando profondamente l’aria; apre poi la porticina della gabbia con mano tremante. Il canarino, passato lo smarrimento iniziale, afferra l’istinto e, con un colpo d’ali, vola sul davanzale. Il piccolo pennuto sembra voltarsi a dare un’ultima occhiata al vecchio con gli occhi pieni di lacrime, ma con un sorriso enorme. Poi, spiegando le ali, balza dalla finestra volando nell’aria fresca di maggio.
Il vecchio sente il cuore palpitare; distende le braccia seguendo le ali dell’amico. Il trasporto dell’emozione è tale che gli pare di sentire l’aria afferrarlo per le braccia e sollevarlo; si fa leggero, così etereo da spiccare il volo.
«Io sarò a Villa Cedri!» urla, con voce rotta dall’emozione. «Vienimi a trovare, se vuoi. Se invece vai da lei, ricordale che l’amo».
E, con un ultimo sorriso, chiude gli occhi.


Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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