di Pierangelo Colombo

giovedì 11 aprile 2019

Sorridevano prima di me

Il racconto di oggi è dedicato a tutte le vittime di violenza, non solo fisica ma anche psicologica. A tutti coloro che da vittime, attraverso il dolore, arrivano a sentirsi colpevoli.


 Sorridevano prima di me


L’aroma di cipolla soffritta satura la piccola cucina. Mamma è ai fornelli, mentre io le do una mano apparecchiando la tavola. Lo sfrigolio del guanciale nella padella copre la voce di Carlo Conti, mentre pone una domanda alla concorrente; non riesco a cogliere il quesito, ma poco male, questa sera non ci sto con la testa.
«Non dimentichi qualcosa?» chiede mamma, il cui tono ha il sapore di un’ennesima ripetizione. Ispeziono le stoviglie ben disposte sopra la tovaglia: piatti, fondine, bicchieri, posate, acqua, vino, tovaglioli e persino il contenitore degli stuzzicadenti rispondono all’appello. La bottiglia di vino è decentrata per coprire un alone; per il resto, non trovo anomalie né, tantomeno, l’oggetto mancante.
«I coltelli, Mirco, i coltelli». Svela l’errore con fare bonario.
Catapultandomi al cassetto delle posate, mi chiedo perché ricorra spesso in questa dimenticanza: “Perché sempre i coltelli?”
L’aggiunta della salsa di pomodoro all’intingolo completa il sugo, attizzandomi il languore.
«Amatriciana?» domando elettrizzato, sapendolo uno fra i piatti preferiti di mio padre. Mamma, voltandosi, risponde con un sorriso d’intesa, suggellando la nostra complicità. Domani, infatti, è il mio nono compleanno e, siccome vorrei uno smartphone in regalo, questa sera abbiamo progettato d’addolcire mio padre.
Non amo particolarmente il mio compleanno: nessun ricordo piacevole ha mai suggellato questa data. È un giorno come altri, se non più malinconico; mamma, però, ha promesso: «Sarà un giorno speciale». E perché lo sia mi sono adoperato in ogni modo: impeccabile nella cortesia, accondiscendente e obbediente a ogni richiesta e, soprattutto, ho versato lacrime e sangue per la verifica di storia.
In questo mi ha dato un grosso aiuto mamma: ore e ore a studiare, ripassare, martellare nel cervello ogni parola, schema e trafiletto sui quei benedetti babilonesi. Preparandomi come un maratoneta in vista delle olimpiadi, ho trascorso interi pomeriggi a studiare con la tivù spenta, gli amici giù nel cortile a fare un baccano infernale giocando a pallone, mentre mi sforzavo per cementificare nella testa i nomi di Assurbanipal, date, città e ziggurat.
Teso come un gatto in un canile, fissando il foglio di protocollo ancora intonso, ho affrontato la verifica deciso a tener bassa la testa, la bocca chiusa e il pensiero concentrato. E ora, superata la prova, sono due giorni che, nascosto nel diario, pulsa un bollente nove e mezzo nell’ansiosa attesa d’essere svelato a mio padre. Non vedo l’ora di veder replicato sul suo volto lo stesso sguardo attonito e incredulo della maestra Elena. Lui che, sconsolato, ha perso ogni speranza di vedermi assegnato un voto che superi il sei e mezzo.
La sigla del telegiornale preannuncia l’arrivo di mio padre. Abitudinario, lasciato il lavoro, sosta al bar dell’angolo per un aperitivo con gli amici e, se non ci sono partite del Milan da pronosticare o analizzare alla moviola, rincasa mentre passano i titoli d’apertura del notiziario.
Sono emozionato quanto un attore in attesa che s’apra il sipario del debutto. Ho ripassato la parte milioni di volte: devo stare tranquillo, lasciare che si lavi le mani, che senta tutte le notizie senza disturbarlo, specialmente la parte sportiva; terminate anche le previsioni del tempo, gli porgerò il diario aperto sul voto.
Mamma avverte la mia tensione; si avvicina accarezzandomi la testa.
Non devo deluderla questa volta; in fondo, so che anche lei ci tiene.
Sussulto, captando la chiave girare la serratura; la porta si apre, ma è richiusa in malo modo. Il clangore delle chiavi, gettate sul tavolino dell’anticamera, precede mio padre nel percorrere il corridoio; non un cenno o un saluto da parte sua. Mi viene da piangere. Guardo mamma vedendole arrossare lo sguardo; tenta un sorriso che non le riesce.
«Problemi al lavoro?» chiede, quando lui entra in cucina.
«Lasciamo stare» risponde, stizzito. «I soliti coglioni che affollano il mondo».
Lo lascio assorto nell’ascoltare le notizie. Da parte sua, nessuna parola o accenno ai bucatini che sbrana con voracità; nemmeno s’accorge del Barolo DOC comprato per l’occasione. Ripenso alle parole di mamma: “Sta attraversando un periodo difficile al lavoro, bisogna capirlo se a volte è nervoso”.
Non so cosa fare, se procedere con il piano e mostrare il voto con il rischio di sciupare tutto o rimandare a domani. Cerco una risposta negli occhi di mamma, ma è disorientata.
Aspetto il termine del telegiornale; appreso del sopraggiungere di una perturbazione dalla Scandinavia, mi do coraggio e, a sguardo basso, sbiascico: «C’è da firmare il diario».
«Un’altra nota!» sbotta. Frainteso il mio atteggiamento, alza il braccio in un gesto di minaccia.
«Aspetta!» esclama mamma, afferrandogli l’avambraccio.
Corro a prendere il diario, il cuore mi batte in gola. Tremo, cercando la pagina che sembra sparita. Mamma interviene e, sorridendo, viene in mio soccorso. Trovato finalmente il voto, porgo il diario a mio padre che, incredulo, lo legge e rilegge, interrogando mamma sull’autenticità.
«E bravo il mio Mirco!» esclama, euforico come avessi vinto la finale di Champions League. Mi stringe con un sorriso a trentadue denti.
Sembra commosso quando, rivolgendosi a mamma, le dice: «Direi che merita un premio, non trovi?» Guardandomi con entusiasmo afferma: «Per il tuo compleanno potrebbe scapparci qualcosa di speciale».
Mamma è al settimo cielo, ma io sono in estasi. Mi risiedo accanto a lui che mi interroga come un maestro, mi fa domande sui babilonesi dando fondo a tutte le nozioni che ha immagazzinato, e anche un po’ ingarbugliato, seguendo le trasmissioni di Alberto Angela. L’ascolto con entusiasmo senza interromperlo, nemmeno davanti a clamorosi strafalcioni di portata biblica. È tanto che non lo vedo sorridere. La mamma ha ragione: non è cattivo, sono le circostanze che lo esasperano e io, molte volte, sono uno, se non il solo, dei responsabili.
Il cellulare di mamma interrompe la chiacchierata; come una bomba che esplode lascia un vuoto d’aria in cucina. Balzo ad afferrare l’apparecchio portandolo all’orecchio. Una voce maschile chiede di un certo Emanuele, ma non riconoscendo la mia, di voce, comprende d’aver sbagliato e, scusandosi, riattacca.
«Chi era?» chiede mio padre, in tono duro. Mortificato, fisso il display alzando le spalle. «Dammi qua!» Mi strappa l’apparecchio di mano. Rovista fra l’agenda, la rubrica, il registro delle chiamate, cercandovi un indizio sul numero sconosciuto. «Chi cazzo è?» urla, rivolgendosi a mamma. «Perché Mirco si è precipitato a rispondere?»
«Non lo so» risponde mamma, impallidendo.
«E chissà come mai, quando sono in casa io, non è mai nessuno che chiama» sbotta, furioso.
Mamma mi ha insegnato, fin da piccolo, che in queste occasioni, quando lui è nervoso, è meglio che me ne vado in bagno. Trattengo il respiro percorrendo il corridoio, come un ladro che si intrufola in un appartamento. Vorrei sbatterla questa maledetta porta, schiantarla con tutta la forza chiudendovi fuori le sue urla. Invece, la richiudo cautamente: cercando di nascondere la mia presenza. Vigliacco, sono troppo codardo per fronteggiarlo gridando di smetterla, ma due schiaffi a manrovescio sono cicatrici che bruciano nella memoria.
Il profumo di lavanda, che impregna i panni stesi, mi dà la nausea, mentre le piastrelle bianche gelano l’aria. Lascio cadere i pantaloni lungo le gambe; abbasso gli slip e mi seggo sul water, fingendo bisogni che non ho. Fisso la lavatrice che mi sta davanti, rammaricandomi del fatto che sia spenta: la preferisco in funzione quando, nel suo rumoroso girare e rigirare, ne fisso l’oblò e i pensieri sembrano mescolarsi agli indumenti. Lo sciabordio scaccerebbe la voce roca di mio padre, mentre insulta e bestemmia mamma.
«Zoccola! Puttana! Tu e quelle troie delle tue amiche che ti riempiono la testa di cazzate!»
Urla che si intrufolano nel bagno attraverso le fessure della porta fino a penetrarmi nello stomaco, dolorose come cazzotti. Inutile coprire le orecchie, le urla sono già nella mia testa; ho provato a sbatterla contro il muro per mandarle via, ma non funziona. Sento l’odio gettato con rabbia addosso alla mamma. Vorrei crescere in fretta, diventare un uomo capace di fermare il mostro; invece, sono un gattino davanti a un leone feroce.
Una volta ci ho provato, mettendomi in mezzo, urlando di smettere, ma lui, furioso, ha scagliato la sedia addosso alla parete. Ricordo ancora il boato. La mamma piangeva, facendomi da scudo. Stringendomi forte, mi ordinò di correre in bagno. “Io sono grande, so difendermi” disse.
Bugie, tutte bugie: la verità erano i lividi, il sopracciglio spaccato e lo zigomo gonfio che ne ha ricavato; quel che mi fece più male fu la consapevolezza d’esserne la causa: se non fossi intervenuto, si sarebbe risolto con i soliti strilli e qualche spintone.
Un piatto s’infrange sul pavimento. Sobbalzo come quando, di notte, sento il boato di un tuono. La voce di mio padre aumenta assieme al panico che scoperchia i miei sensi di colpa: sono sempre la causa d’ogni litigio, una nota, un brutto voto, un paio di scarpe rotte giocando, un buco nei jeans nuovi; sono maldestro, stupido, una nullità. Il mio nome rimbalza sempre nei loro litigi, come fosse una patata bollente. Ho portato la sciagura in questa casa, basta guardare le vecchie foto: erano felici, si abbracciavano, sorridevano prima di me.
Mi dolgono le gambe per la posizione, però, resto seduto, resisto, anche se mi sento a pezzi. L’illusione di un successo si è sgretolata come un castello di sabbia al sole. Credevo di riscattarmi con un voto, ma come dice nonno: “Un asino con le orecchie da cavallo resta sempre un asino”.
«Dove cazzo sono le chiavi?» urla mio padre. È nel corridoio, sento i passi concitati andare avanti e indietro. Mamma tace, forse piange. Ho paura, forse mi sta cercando. E se apre la porta? Cosa devo fare? Non voglio che mi veda in questo stato, non voglio che mi picchi con i pantaloni calati, ma le mie gambe rifiutano di muoversi; mi chiudo a riccio, trattengo il fiato. Fisso con occhi sbarrati la maniglia della porta. Il tempo è fermo; mi dolgono gli occhi pregandomi di sbattere le palpebre, ma non ci riesco.
Silenzio.
“Dio, perché mi hai fatto nascere?” bestemmio, maledicendo il giorno del mio compleanno.
Ancora silenzio; poi, improvviso e devastante, il boato dell’uscio di casa sbattuto con rabbia.
Torna il silenzio. Un’assenza di vibrazioni che mi fa rabbrividire pensando a mamma. Alzati i pantaloni attraverso il bagno, afferro la maniglia, la mano trema. Apro cauto l’uscio sbirciando nel corridoio buio. Corro in cucina trovando i cocci sul pavimento, il diario ancora aperto sul tavolo: nessuna firma, nessun premio.
«Mamma?» sussurro, non vedendola. «Mamma?» chiamo, soffocato dal groppo alla gola. Non voglio piangere: è da femminuccia, mentre io devo farmi uomo. Cerco di resistere, ma le lacrime sono incontenibili: “Se n’è andata”. Tremo al pensiero, ma poi, dalla mia camera, sento provenire un lamento.
È buia, vi entro con passo felpato, come un clandestino; dalla via penetra la luce di un’insegna al neon che, attraverso le persiane, disegna sul soffitto una griglia dorata. La trovo rannicchiata sul mio letto, mentre trattiene a stento dei singhiozzi. Mi avvicino intimorito, ma lei non è arrabbiata con me, è troppo buona per esserlo. Mi afferra il braccio tirandomi a sé, mi fa stendere vicino stringendomi così forte da soffocare. Mi bacia la fronte, ne sento le labbra bagnate: forse lacrime o sangue che cola dal labbro spaccato. Avvampo di rabbia, stringo così forte i pugni da sentire le unghie conficcarsi nella pelle. Stringo forte i denti, la mascella mi fa male come dopo un pugno in pieno volto. Devo punirmi: è colpa mia, è colpa mia, è colpa mia…


 Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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