di Pierangelo Colombo

martedì 30 maggio 2023

QUARANTOTTO MINUTI AL SUONO DELLA SVEGLIA

Quarantotto minuti al suono della sveglia



  Vi sono necessità che non ammettono indugi. Si può rinviare un pasto nonostante i morsi della fame, persino procrastinare il sonno, ma quando la vescica è sul punto di traboccare, beh, non c’è volontà che tenga. E Max non fa eccezione; vorrebbe starsene tranquillo, accucciato sul proprio materassino in corridoio senza interrompere il sonno del proprio umano, ma il fastidio è ormai insostenibile. Un espediente potrebbe essere quello di sollevarsi e, raggiunto un angolo strategico, alleggerire la pressione di quel poco sufficiente ad attendere, per il saldo, il risveglio del tutore. Idea balzana che il quadrupede scaccia con un colpo di coda: l’umano non approverebbe. Max non vuole contrariare il maschio alfa che, certo, impartisce regole ferree, ma che amministra l’ordine con saggezza, premiando le cose ben fatte e limitando i castighi a dei richiami verbali. Così, pungolato dall’impellenza, varca la soglia della camera da cui proviene un nitido ronfare. Raggiunge con passo felpato il dormiente. Gli è precluso di balzare sul letto e quindi, poggiando il petto al materasso, allunga il collo protraendo il proprio tartufo umido fino a sfiorare il volto dell’uomo. Nell’intervallo fra una russata e l’altra, Max sbuffa due volte attraverso le narici, stratagemma che, tuttavia, non produce l’esito auspicato, così, leccandogli velocemente la punta del naso, lo desta.
  «A nanna Max, a nanna!» mugugna l’uomo, scacciando la seccatura come fosse una mosca. Ordine che, solitamente, riporta nei ranghi il fido compagno respingendolo alla propria cuccia. Questa volta, però, anziché retrocedere, Max palesa insubordinazione e, posate le zampe anteriori sul letto, inizia a mugolare; azione che costringe l’uomo al totale risveglio. Dev’essere questo il trauma della nascita pensa: lasciare una bolla calda, rassicurante, colma di vibrazioni famigliari per ritrovarsi sommersi da luce, freddo e suoni acuti, dove non si può fare a meno di piangere. 
  «Cos’è che vuoi?» domanda allungando una carezza. Lo sguardo cerca la radiosveglia: i led indicano le cinque e tre minuti. Ora antelucana confermata dal profondo silenzio che amplifica il ritmico scodinzolio sopra lo scendiletto.
  «Non avrai già fame?». Anche se raramente, capitava che Max si svegliasse prima dell’alba in preda a una crisi famelica di portata biblica. 
  L’uomo, appellandosi alla disciplina, vorrebbe imporsi rammentando alla bestiola il ruolo subalterno nella scala gerarchica. Il pensiero di smuovere le coperte, rinunciando all’avvolgente tepore del letto, lo getta nello sconforto, come un bimbo costretto a interrompere una poppata. Max, tuttavia, sull’orlo del travaso, insiste aumentando la frequenza dei mugolii. 
  «Allora se’ proprio bischero», lo zittisce.
  Sospira l’uomo, conscio che l’insistenza dell’amico non sia parto di un capriccio: è un buon cane le cui richieste hanno di norma motivazioni serie. Accompagnato dal fruscio delle lenzuola si mette a sedere; nel calzare le pantofole il piede destro sfiora il pavimento gelido, come la pinzetta dell’allegro chirurgo che tocca il bordo del paziente, dall’arto parte un brivido che spazza ogni residuo di sonno. Il cane, vedendo finalmente l’eroe entrare in azione per salvarlo, si agita: scodinzola, gira su sé stesso, ne cerca le mani per leccarle, chiedendo indulgenza e mostrando riconoscenza al tempo stesso. 
  «Buono Max, buono», sussurra. Sollevandosi allunga la mano alla parete, per non perdere l’equilibrio. 
  Percorso il corridoio, l’uomo si dirige verso la ciotola, posta nell’angolo della cucina, ma quando la raggiunge si accorge di non essere seguito. Tornato sui propri passi scova Max seduto all’ingresso a fissare l’uscio.
  «Ti avevo detto di non bere come un cammello!» lo rimbrotta. «Così t’impari a rubare il cibo».    Riferendosi alle due acciughe sotto sale che il quadrupede, con mossa lesta, aveva razziato dal cartoccio lasciato incustodito sul tavolo divorandole.
  Compresa l’emergenza, l’uomo indossa frettolosamente l’impermeabile, le scarpe, sciarpa, cappello, mentre Max, come una bomba in procinto di esplodere, controlla a fatica la pressione urinaria mettendosi a gironzolare. Agganciato il guinzaglio al collare, l’uomo apre l’uscio. Uscito sul pianerottolo le luci si accendono automaticamente. L’aria fredda che risale la tromba delle scale lo investe, facendogli rimpiangere ancor di più il letto e il tepore dell’appartamento. Appena scesi i primi scalini deve aggrapparsi al corrimano, mentre con l’altra mano trattiene la foga del cane che tende il guinzaglio.  
  «Vai bello, annaffia pure», bisbiglia, indicando lo zerbino dell’inquilina del piano di sotto. Proposito che metterebbe volentieri in atto a risarcimento dei petulanti lamenti della bisbetica, elargiti copiosamente a ogni incontro.
  Il silenzio che aleggia su ogni pianerottolo è rotto dal ronzare dell’immortale lampada al neon che rischiara l’androne. Poggiata la mano sul maniglione del portone, l’uomo saggia l’intensità dell’inverno che lo attende oltre. Appena fuori, infatti, è investito dall’aria gelata che ne condensa il fiato in una nuvola di vapore. Poco distante c’è un’aiuola e Max, trascinandosi dietro l’uomo, vi si fionda e, alzata la posteriore destra, lascia sgorgare lo zampillo.
  L’uomo osserva divertito l’amico rilasciarsi; in pieno godimento gli occhi dell’animale si socchiudono su di uno sguardo appagato, mentre calano anche le orecchie come le guance e persino la gamba, prima tesa verso l’alto, si abbassa lentamente. Sembra un palloncino che, svuotandosi, stia per afflosciarsi sul terreno trasformandosi in una frittella.
  Prima di allontanarsi dall’aiuola, il cane raspa il terreno con le zampe posteriori, scagliando del terriccio in strada. Tanta è la foga profusa nell’operazione che, quando una zampa trova l’asfalto anziché la terra, l’improvvisa aderenza dei polpastrelli lo proiettano, a molla, verso il muretto antistante.
  «Sei imbarazzante per tutta la tua specie», lo canzona l’uomo. «Visto che ormai siamo fuori completiamo l’opera; abbiamo fatto trenta…» dice, proponendo il proseguo della passeggiata, almeno sino all’angolo dove Max, abitualmente, espleta le proprie deiezioni.
  «Cagare dove capita? No, vero? Devi trovare la giusta ispirazione».
  Si stringe nell’impermeabile, respirando l’aria gelida rimpiange la canicola estiva, una delle ultime rinviene nei ricordi: la vacanza in riviera con la compagna, da sposini, come non capitava da anni. Loro due immersi nell’Adriatico ridendo a crepapelle per delle scemenze, come una pernacchia farebbe scompisciare un bimbo. Ridevano sino alle lacrime, tanto da non trattenere nemmeno la vescica che si liberava in mare. Abbracciati come fidanzatini, lasciandosi cullare dal moto ondoso. Le labbra salate di lei così invitanti, la voce allegra. I pensieri cancellati dalla voglia di vivere, di godere. 
  Ripensando a quella vacanza percorre il marciapiede dribblando sacchi dell’indifferenziata e auto. Giunto vicino a una Golf color argento, parcheggiata lungo il viale, l’uomo vi indirizza uno sguardo malevolo: vorrebbe vederla avvolta dalle fiamme o, perlomeno, convincere Max a liberare gli intestini sul cofano motore, sarebbe disposto a tenerlo in equilibrio per prendere bene la mira. Astio, quello nei confronti del proprietario, che ha ragioni profonde: all’infame, infatti, imputa la decisione della propria figlia di emigrare a Londra. In quattro anni di fidanzamento, è acclarato, il bastardo aveva reso una ragazza innamorata in una donna tradita; l’adultero aveva adornato la testa della compagna di una quantità di corna tali da far impallidire il più maestoso dei cervi. Tante le bugie, gli inganni e le ferite da rendere il quartiere, la città stessa invivibile per una amazzone disarcionata. Disorientata è fuggita per ritrovare la bussola. 
  Un’assenza che prende peso ogni giorno di più, specie in inverno, quando la ‘piccola’ rientrava la sera imbardata da capo a piedi per il freddo, decidendo di restare a casa, o la domenica a pranzo, quando il suo posto a tavola è più desolato di un cimitero a Ferragosto. La sua camera è intatta, una macchina del tempo sospesa all’orario di partenza, pronta a riprendere il proprio ticchettio al rientro della proprietaria. Lontananza che ha esposto chiaramente la metafora della farfalla nella teoria del caos: la figlia invia un messaggio WhatsApp da Londra dicendo d’essere raffreddata e in casa Ricci esplode un ciclone d’angosce, immaginandola in preda a convulsioni. L’uomo benedice la tecnologia che permette loro di comunicare quasi giornalmente. Udirne la voce, vederne il viso attraverso lo schermo del cellulare è un palliativo ma, seppur benefico, non basta a colmare il vuoto lasciato in quella casa, desolata come una scuola in estate. Momenti in cui, assediato dalla malinconia, si domanda dove sarebbe la figlia se non avesse incontrato il bastardo; lui che, in trentasette anni di matrimonio non aveva mai tradito la sua compagna. Non che fossero mancate le occasioni o le tentazioni, anzi, ma il timore di rovinare il loro rapporto, seppur umanamente imperfetto, aveva sempre domato gli istinti. Una convivenza traballante, certo, come un vecchio tavolo, ma l’amore aveva sempre prodotto un tassello, un pezzo di cartone in grado di puntellarlo. Una vita intrecciata, a volte talmente ingarbugliata da formare dei nodi che la pazienza, tuttavia, aveva sempre risolto. Un ardore iniziale, il loro, che il tempo aveva raffreddato trasformandolo in un amore simbiotico, dove l’esistenza dell’uno si fonde in quella dell’altra. Era nato, più di una volta, il dubbio di entrare in porto, ormeggiare la barca per riprendere una via solitaria, ritrovare il proprio tempo, l’indipendenza giovanile, ma alla fine, calata la tramontana di rabbia, ritrovavano la voglia di proseguire il viaggio assieme, curiosi su dove il destino li avrebbe fatti approdare.   
  Sospirando, l’uomo riprende la passeggiata. L’umidità è densa, tanto da assorbire in una foschia lattiginosa il lume degli ultimi lampioni lungo la via. Una barriera che pare isolare il quartiere dal resto della città, proiettando ancor più lontana Londra, quasi fosse sul lato oscuro della Luna. Il freddo è pungente e sembra accanirsi sul naso e sulle orecchie rendendole insensibilmente doloranti; un clima rigido che risveglia il desiderio di tornarsene a letto, accanto alla sua compagna. Cosa vi è al mondo pensa, che possa eguagliare la dolce sensazione nell’infilarsi sotto le lenzuola? Ritrovare il tepore mantenuto dal corpo di lei, come fosse un focolare in una tempesta di neve. Pregusta il godimento di abbandonarsi al benessere ascoltandone il respiro lieve; lasciarsi stringere dal suo abbraccio avvolgente, caldo, morbido e sensuale; colmare le narici del profumo della pelle e lasciarsi solleticare il naso dai suoi capelli.
  Pensiero che ha sempre alleviato le gelide uscite mattutine, specie quelle domenicali, come la ricompensa divina che spetta ai santi che subiscono il martirio. L’estasi di ritrovare un letto dove godere di un altro po’ di felicità, un abbraccio da assaporare oppure, se l’ora è già tarda, trovare l’avvolgente aroma del caffè ancora borbottante nella moka, la tavola apparecchiata per la colazione e il sorriso di lei: il migliore dei croissant.
  Aspettativa che sollecita l’uomo a rincasare appena Max ha soddisfatto i propri bisogni. Avvicinandosi a casa i due allungano il passo. Un’auto, svoltato un angolo, illumina i due con il proprio fascio di luce. Max, distratto nel fiutare una pista sul selciato, scorge improvvisamente la propria ombra, ingigantita, proiettata sul muro di recinzione. Il balzo di terrore della bestiola fa scoppiare nell’uomo una risata. «Avrei dovuto chiamarti Cuor di Leone» lo canzona.
  Il tepore dell’androne rinfranca i due mattinieri. Infilate le scale, l’uomo fatica a trattenere nuovamente la foga dell’amico, ora affamato. Inserite le chiavi nella serratura si sospende tentennando per un istante, fissa l’uscio quasi volesse sincerarsi sia quello giusto. L’affanno, figlio della salita, ricolma il pianerottolo altrimenti muto. Aperta la porta scorge la luce accesa nella cucina. “Amore?” vorrebbe chiamare, ma nessun profumo di caffè lo avvolge. Attende un istante prima di varcare la soglia, il silenzio è profondo, quasi solido, tanto che può udire il ticchettio delle unghie di Max che zampetta lungo il corridoio; abitualmente, appena rincasato, corre scodinzolante dalla sua umana per una carezza, saluto ricambiato con una leccata alla mano. L’amico, invece, sedutosi dinanzi alla ciotola, attende l’uomo, ma non scodinzola, la sua è una felicità mesta, mutilata. La malinconia si legge nello sguardo del cane che fissa l’umano in una preghiera silente di cibo. Gli occhi dell’uomo si fanno liquidi, tanto che fatica a trovare il sacchetto delle crocchette. Chinandosi sulla ciotola per colmarla, dà una carezza a Max, senza dire una parola. Mestamente getta un’occhiata al calendario appeso in corridoio: mancano tre settimane a Natale, diciannove giorni al ritorno della figlia.
  Svestitosi si dirige nella camera da letto. Il silenzio che lo attende lo respinge in corridoio. Il letto è deserto, freddo e immenso. La camera è ricolma all’inverosimile di un’imponente mancanza. Quel talamo senza un’anima è l’incubo che risveglia l’uomo dal sogno, balzandolo in una straziante realtà. Un’assenza gelida come le lenzuola in cui si infila. Gli occhi di Max lo seguono dal corridoio, sguardo mesto, orfano di una persona amata, venerata, rimpianta. L’uomo ricambia la malinconia liquida dello sguardo. Max pare comprendere e, abbassando la testa, si dirige alla propria cuccia.
  «Max!», lo richiama l’uomo, «vieni!» lo invita a salire sul lettone. Il cane esita, teme di non aver compreso l’invito. «Dai, sali!» ripete l’uomo, battendo la mano sul materasso. Senza farselo ripetere, il quadrupede balza sul letto e, acciambellandosi, si appoggia al suo fianco. 
  Serra le palpebre l’uomo: per non vedere, nella speranza di rigettarsi nel sogno lasciato in sospeso. Mancano quarantotto minuti al suono della sveglia, quarantotto minuti di sospensione fra un passato caldo e un futuro gelido, secondi lunghissimi di una veglia mesta, tempo in cui, se intende continuare a vivere, deve trovare un solo motivo per cui valga ancora la pena alzarsi per recarsi al lavoro, per continuare a respirare e sopportare la solitudine. Come un fiore reciso deve imparare a suggere l’acqua consapevole che senza radici la sua non sarà più esistenza, ma sopravvivenza. Quarantotto minuti per racimolare le forze necessarie ad affrontare la luce del giorno che, scacciando i sogni, palesa in maniera lampante l’assenza di lei. Quarantotto minuti per scovare una valida ragione per continuare a vivere senza più udirne la voce. 


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