di Pierangelo Colombo

giovedì 17 maggio 2018

Il giullare disarmato

 Ogni giorno la guerra miete vittime, vite umane annientate, migliaia di persone cui viene sottratto il sacrosanto diritto di vivere.
Contro ogni tipo di guerra voglio dedicare questo mio racconto.

Stańczyk di Jan Matejko
Il giullare disarmato 

 Perdonate l’ardire, o mio signore, chiedo unicamente di accordare un poco del vostro prezioso tempo a un umile servo quale io sono. 
 Sopportate, come può solo un nobile cavaliere, la seccatura che arreca un povero giullare di corte, nel modo in cui un fiero destriero patisce il fastidioso ronzare di calabrone.
 Proprio come calabrone senza più aculeo, eccomi prostrato a voi con il buffo cappello: unica mia difesa, inerme nelle mani. 
 Vile fra i miseri vi tesi quest’appostamento in cotesto corridoio lungo e fosco, ove solo gli ornamenti e i tappeti possono udire le suppliche che dal cuor mio rivolgo a voi, lontano dai fasti del gran salone ove i nostri signori si stanno intrattenendo in affari assai più nobili. 
 Conosco l’affanno e il penare che amareggiano i vostri pensieri in questi giorni precedenti la partenza verso i campi dove infuria la battaglia. 
 Dall’alto del vostro nobile valore, non avete che uno sguardo di disprezzo nei miei confronti. 
 Voi, uomo d’armi che ben conoscete lo strazio che la guerra elargisce con tanta dovizia, non potete che aver spregio di chi, facendo il saltimbanco, rimane al sicuro, dove il tepore, il cibo e il vino non posson mancare. 
 Non è mio proposito, certo, contestare la vostra ragione; prima che voi ve n’andiate, però, vorrei discolparmi ai vostri occhi, se posso. 
 È verità sacrosanta ribadire che i nostri mestieri sono distanti come possono esserlo il luminoso giorno e la fosca notte. Se pur nobile causa vi guida, il vostro compito è portare morte sui campi di battaglia, mentre il mio è portar allegria e soavità nelle sale della corte. 
 Eppur, anche il dì e la notte, così diversi, hanno momenti di viver comune: l’imbrunire del crepuscolo o il rischiararsi dell’albeggiare, così come le nostre persone conoscono eguali patimenti. 
 Il sorriso di scherno che traspare dalla vostra espressione mi conforta, confermandomi che le parole mie sono accolte con attenzione. 
 Il mio ragionare non è campato in aria: avrei preferito di gran lunga poter darvi ragione, smentendo tutto ciò che vado raccontando; malauguratamente, però, il fato è ben lontano e assai differente dai nostri desideri. 
 Chi vi sta innanzi, importunandovi, è figlio di guerra. Nato da una donna che certo non si potea dir pia, in quanto della più antica delle arti faceva professione, in uno dei tanti villaggi che sorgono sparuti lungo la grande via, ove da secoli mille eserciti e compagnie di ventura ne calpestano la polvere. 
 Proprio da uno di questi armigeri, diretti ai piedi dei grandi bastioni, venne il seme che nel ventre di mia madre trovò terreno fertile ove germogliare. 
 Ne nacqui io, ereditando le colpe di chi con dolore e prezzo della vita mi mise al mondo. 
 Il fato, non ancor appagato dei propri crediti, volle tenermi in vita e come cucciolo di cagna che s’infila in altra nidiata per trovare nutrimento, così anch’io fui accolto in altra casa per essere allevato finendo presto in stalla a fare di vita lavoro. 
 La carestia, tramite la mano della fame, ha modellato questo mio corpo, rendendolo paradossalmente buffo, ma come germoglio testardamente aggrappato a terra arida, crebbi lentamente, ricurvo e nodoso. 
 Non crediate, però, che io veda sempre nero: il buon Dio mi diede anche virtù, come il discernere il bello nel brutto, la prontezza nelle battute di spirito e, soprattutto, il dono di scorgere il profondo dell’animo delle genti. 
 Doni che non procurano cibo, sosterrete voi, eppur è grazie a loro che oggi sono qui a fronteggiarvi. 
 Un frate di già anziana età mi prese con sé, portandomi nell’abbazia ove vivea con altri confratelli. 
 Così, servo fra i servi, crebbi tra genti sapienti che mi iniziarono all’arte della musica, del canto e della poesia. 
 Arti che, mescolate con l’innata predisposizione allo sberleffo, divennero sempre più strette in quelle mura, dove lo scherno e il riso erano considerate opere del demonio; finché, un giorno, passò per l’abbazia un nobile signore, diretto a prender insediamento nei nuovi possedimenti elargitigli dal principe, signore di tutte le terre. 
 Il nobile, intuendo in me l’ardire delle battute, la goffaggine della postura e la capacità nel raccontar storie, m’assoldò come giullare della sua corte. Lo stesso signore di cui anche voi siete fedele servitore. 
 Sappiate che anche il giullare è remunerato, non certo come un soldato, ma la stessa moneta è usata come compenso. Non crediate, però, che sia mal meritata, non molte differenze passano fra una battaglia e un banchetto. 
 Non v’adirate, vi prego, il mio non vuol essere scherno irriverente, bensì considerazione dettata dall’esperienza. Voi indossate un’armatura che vi protegge dai colpi dei nemici, io porto questo abito dalla buffa fattura, senza il quale mai potrei pronunciare ciò che la mia lingua ardisce.
 Voi marciate con passo pesante e scudo alzato a parare gli affondi avversari; io mimo balletti e uso il cappello per scostarmi dalle ire di chi prendo a mira. 
 La spada usate per ferire chi vi sta di fronte; la lingua a mo’ di lama affondo con ironia e irriverenza nei commensali a corte. 
 Fo ridere, certo, ma le parole procurano nemici alla mia persona; più volte sono stato prossimo alla soglia che separa l’uomo libero dal prigioniero, e solamente l’immunità concessa da questi abiti mi ha salvato, per ora. 
Il ricordo bruciante della fame impiego quale mola per affilare la lingua. La moderazione nel vino la mia salvezza, senza la quale perderei la misura, affondando troppo incautamente con parole dure e taglienti in grado di ferire a morte. Credetemi, non è facile entrare nel gran salone con il compito di far divertire gli ospiti, arrecare loro sollievo e spensieratezza, quando nel mio cuore scorre mescolato al sangue un amaro fiele. Un veleno che genera spasmi e sofferenze. 
 Troppe parole dure e segreti impronunciabili hanno udito queste orecchie; congiure di palazzo e arditi progetti sono giunti a me. Forse la mia vocazione allo sberleffo e allo scherno mi bolla come uomo stolto e indifferente, per questo non sono allontanato nemmeno quando i nobili signori discutono di affari seri. 
 Ma mi sto dilungando troppo: non vorrei approfittare della mia buona sorte e della vostra nobile pazienza. Terminerò di menar il can per l’aia e giungerò presto al dunque, prima che alziate il vostro poderoso braccio facendo di me pappa per i cani.
 Comprendo l’impazienza di andare a salutare i vostri cari prima dell’imminente partenza, e proprio di questo volevo parlare. 
 Siete destinato a questa guerra, queste battaglie contro un nemico sconosciuto, non per difendere i vostri cari o le nostre terre, le nostre case, bensì per soddisfare l’ozio e l’ingordigia di un principe capriccioso, la cui sete di nuove conquiste non è mai appagata. Un principe che ha chiesto il pagamento di questo grave tributo al nostro nobile signore, il quale non poté che rispondere assentendo, pur conoscendo l’amara conclusione di un’impresa ardita come quella cui siete destinato. 
 Voi, nobile cavaliere a capo di tanti giovani del nostro popolo, giovani che ho visto crescere, che ho fatto ridere, giocare, da cui sono stato sbeffeggiato come si può irridere un padre benevolo. Giovani nel fiore degli anni, distolti da una vita di fatica nei campi, nelle botteghe o sulle barche a pescare i pesci dal nostro placido lago. 
 Lavori gravi, certo, senza gloria né vanto, ma pur sempre una vita vicino a chi li ama e brama per loro salute e prosperità. 
 Ora, invece, le loro strade sono rivolte tutte oltre il vallo, giù per le aride spianate verso le città dalle bianche torri. Ignari vitelli condotti verso il mattatoio; pochi, forse nessuno farà ritorno. 
 I vostri occhi, velati di cupa tristezza, confermano le parole che sto affermando, non mie, ma di ben altri ragionamenti che udii, come dissi prima. 
 Or giungerò al dunque, mio signore, sapendo che non potranno le mie preghiere cadere vane, conoscendovi padre come io sono. 
 Fra quei figli della nostra terra che partiranno con voi, vi è un giovane di nome Alfeo, forte e coraggioso, dal portamento fiero e imponente. Nel vederlo non credereste essere il figlio di un uomo minuto e gobbo come sono io. 
 Alfeo è tutto ciò che di più caro posseggo, unico ricordo della donna che amai. Smeraldo che brillava fra la verde erba primaverile, capelli di nero carbone, occhi di limpida acqua cristallina, labbra di puro velluto, porpora il loro colore e d’alabastro la sua pelle. 
Unica donna che mi abbia amato per quello che sono, che abbia visto oltre questo sbiadito  vestito. 
 Donna che sapeva ridere, di un sorriso capace di far impallidire la più splendente delle lune. 
Donna che ha saputo donare senza chiedere nulla in cambio, la cui vitalità era contagiosa. Non v’è figura in tutto il contado che non ne possa parlare che di bene. 
 Il fato, però, che senza sosta reclama tributo per i debiti contratti da mia madre, ha bussato alla nostra porta e, geloso della nostra felicità, si è preso la fiamma della mia vita. Fiamma che si spengeva dando alla luce il frutto del nostro amore. 
 Mesto destino perseguita le donne della mia famiglia, tanto che benedissi l’essere maschio della mia progenie, mettendolo così al sicuro da tal nefasta sorte. 
 Lo crebbi come meglio potei, contrassi debiti per vederlo istruito, conoscitore del parlato e dello scritto, della poesia e dell’amore. 
 Ecco, però, che in età adulta il destino ha inviato ancora il suo esattore a ritirare l’eterno tributo; non ancora pago, prende ciò che di più caro ho al mondo. In lui alberga una parte dell’anima della mia donna assieme a una parte della mia. Solamente questo pensiero m’impedì di perdere il senno: con Alfeo il ricordo di lei era sempre vicino a me. 
 L’idea di perdere anche lui non mi dà pace, mi arde dentro come una fiamma lenta ma inesorabile, fuoco che mi logora lentamente senza tregua. 
 Non mi vergogno nel dire di aver cercato d’esortare mio figlio a fuggire, abbandonare questa terra per una dove non costringono i propri ragazzi a immolarsi per la gloria di uno stolto governante. 
 Suppliche, però, cadute vane; ciò che consideravo un dono si è rivelato una condanna. Ho continuamente ringraziato Dio per avergli concesso di prender da sua madre la bellezza, il portamento fiero, la giovialità e da suo padre l’arguzia, la dignità e l’onore. 
 Quest’ultimo si è rivelato il peggior dei difetti. Per onore, ha bollato le mie suppliche come codardia; per onore, vuole seguire il destino segnato per lui e gli altri figli maledetti di questi tempi. E per lo stesso onore, non posso che acconsentire alle sue volontà e benedire questo suo lungo viaggio. 
 Or, giungo alla conclusione di questo mio lungo vaniloquio: vi domando, o mio signore, non di rendergli favori; che non sia trattato in modo diverso dagli altri. 
 Vi prego solamente di fare tutto ciò che è in vostro potere perché nell’ora della fine la sua non sia una lunga e tormentata agonia. 
Dal canto mio, non mi rimane che pregare: non credendo più ai miracoli, prego per le vostre anime. 
 Ora vi lascio andare; a ognuno il proprio compito: a voi l’elmo e l’ardua sorte, a me il fardello d’indossare codesto cappello e andar nel salone con passo spedito e leggero a portare risa e allegria. 
 Là, ove i nostri signori attendono il sollievo dal loro greve carico: maggiore è il loro patire, poiché assai ricco e copioso era il banchetto che ora hanno da smaltire.

Di P. Colombo edito nella raccolta: Dodici semi di senape, 2014

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