di Pierangelo Colombo

mercoledì 28 febbraio 2018

Poesia e Libertà


La Poesia è un fremito di libertà. È l’anima che, svincolandosi dalla ragione, fuoriesce con la leggerezza di un battito d’ali, provocando delle vibrazioni musicali. Onde d’emozione, di rabbia, amore, sfogo e protesta. La poesia è libertà di pensiero, di sentimenti; è un volo leggero su di un mondo meraviglioso e crudele al tempo stesso.
La poesia è pensiero puro che si materializza attraverso le parole, è luce che si propaga nell’aria e come tale, non può essere imprigionata. Per quanto l’uomo possa sforzarsi di soffocarne ogni forma, la poesia sopravive a ogni regime, per quanto esso possa essere potente, non potrà mai imprigionare a vita il libero pensiero.
La Poesia, a volte, ha il volto di una donna; come quello di Nadežda che, per amore del suo uomo, della libertà e dell’arte, ha compiuto un’impresa straordinaria, tramandandoci dei versi che, altrimenti, sarebbero andati persi. 
Nadežda Jakovlevna Chazina

Nadežda Jakovlevna Chazina Mandel'štam, nasce a Saratov nel 1899 da una famiglia ebraica della media borghesia. La più piccola di quattro figli, trascorre un’infanzia agiata a Kiev. È qui che nel 1919 conosce Osip Mandel’štam, uno dei più grandi poeti russi, fra i principali esponenti dell’acmeismo. Un movimento che, in contrasto con il misticismo del simbolismo, incarna una poesia incentrata sulla chiarezza espressiva. I due si sposeranno nel 1923. Durante la guerra civile si trasferiscono a Mosca dove vivono in forti ristrettezze economiche, aggravate dal graduale isolamento di Mandel’štam, da parte dei gruppi letterari e i giornali lo ignorano, non pubblicandogli più poesie. Nel 1930 i Mandel’štam compiono un viaggio in Armenia e in Georgia. Da cui nascerà Viaggio in Armenia pubblicato sulla rivista Zvezda, cui seguirà un violento attacco della Prava che definisce le immagini di Mandel’štam «vecchie e putride» e lo stesso autore «un vecchio poeta acmeista pietroburghese, che non ha visto l’Armenia che si sviluppa con un ritmo impetuoso costruendo felicemente il Socialismo».
Nel Maggio del 1934 Mandel’štam viene arrestato per la composizione dell’epigramma contro Iosif Stalin dal titolo Viviamo senza più avvertire sotto di noi il Paese, in cui il poeta si riferisce al dittatore come al «montanaro del Cremlino» che ha «occhiacci da blatta» e «dita tozze e grasse». Osip viene condannato ai lavori forzati, la pena poi viene commutata in confino e alla moglie viene permesso di seguirlo. Provato dagli interrogatori viene ricoverato in ospedale, dove tenta il suicidio. Grazie all’intervento di Nikolaj Bucharin, la pena viene commutata in soggiorno coatto a Voronež, a 500 km da Mosca. Il poeta scrive: «Vengo considerato alla stregua di un cane. Sono un’ombra. Non esisto. Ho solo un diritto: morire. Spingono me e mia moglie al suicidio». Nel 1938 Osip viene nuovamente arrestato e condannato per attività controrivoluzionaria. Morirà a Vtoraja Rečka, un campo di transito vicino a Vladivostok, nell’estremo Oriente russo.
Dopo la morte del marito, Nadežda compie continui spostamenti per paura di essere arrestata. «A salvarmi dall’arresto fu la mancanza di un alloggio […] per me non si trovò una trappola e così, senza casa, fui dimenticata, e mi sono salvata e ho salvato i versi di Mandel’štam». La missione della sua vita diventa salvare dall’oblio i versi del marito. Portare con sé i manoscritti o trascrivere le sue poesie era troppo pericoloso, così Nadežda li impara a memoria, li mormora tra sé e sé fino a quando diventano una parte di lei. «Per me, in quella notte di Maggio, si profilò un […] compito, ed è per esso che ho vissuto e continuo a vivere. Modificare il destino di Osip Ėmil’evič era al di sopra delle mie possibilità, ma sono invece riuscita a salvare una parte dei suoi scritti e molti ne ho conservati nella memoria. Io sola potevo salvarli».


Osip Mandel'štam


TRISTIA
Io so la scienza dei commiati, appresa
fra lamenti notturni e chiome sciolte.
Stan ruminando i buoi, dura l’attesa:
ultim’ora di veglia delle scolte
cittadine; e mi piego al rito della notte
dei galli, quando – in spalla il carico di strazio
del viaggio – guardavano lontano umidi occhi,
e pianto di donne al canto si univa delle muse.

Chi, alla parola «commiato», sa quale
distacco giungerà per noi fra poco,
che cosa presagisce lo strepito dei galli
mentre la fiamma arde sull’acropoli,
e perché all’alba di una vita nuova,
mentre il bue rumina pigro nell’andito,
il gallo, araldo della vita nuova,
sulla cinta muraria sbatte le ali?

E amo il filato, amo la tessitura:
il fuso ronza, va su e giú la spola.
Guarda: scalza, leggera come fosse peluria
di cigno, Delia già incontro ti vola.
O gramo ordito del vivere nostro,
che povera è la lingua della gioia!
Tutto fu in altri tempi, tutto sarà di nuovo;
solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento.

Ma cosí sia: giace in un lindo piatto
d’argilla una traslucida figura,
come una pelle stesa di scoiattolo,
e a scrutare la cera una ragazza è curva.
Non sta a noi trarre auspici sul greco Erebo:
la cera è per le donne ciò ch’è il bronzo per l’uomo.
Noi sfidiamo la sorte dei guerrieri;
destino è ch’esse traendo auspici muoiano.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

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